Si esce vivi da qualsiasi decennio.
Rimani sempre un po’ stupito al pensiero che una terra di rudi minatori e aspre montagne come il Galles produca musica non di rado malinconica e leggiadra. E che quella stessa musica sia anche uno splendido “a sé”, garantito dal crescere in territori isolati ma non troppo dal resto del Regno Unito, con in tasca un surplus di orgogliosa unicità, sia linguistica che folklorica. Giusto per buttar lì qualche nome, pensate a John Cale e ai Gorky’s Zygotic Mynci, agli Young Marble Giants e a Cate Le Bon, pronta per ritornare in pista ai primi di febbraio 2022 con l’album Pompeii.
La cartella stampa racconta di un disco composto in solitudine forzata a causa della pandemia, inciso ricorrendo a pochi ospiti durante un periodo non molto felice che l’artista gallese definisce una “distorsione temporale”. Ed è proprio da una tasca cronologica che giunge Running Away, fotografia di una Nico lucida che nel 1982 collabora con David Sylvian e affida la produzione a Brian Eno. Tutto bello e possibile, perché la musica – soprattutto quella di oggi, soprattutto la migliore – è un grimaldello che distorce il tempo e riscrive la storia. A maggior ragione se chiudi il cerchio a Cardiff, tra le mura di una casa dove avevi una vita tre lustri fa.
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Supponiamo sia per questo che dalla canzone trapela più inquietudine del solito e che sul finale il sassofono blu ci si conficca nel cuore. Brutta bestia la malinconia, chi lo nega. Tuttavia, in mezzo a luci violacee e abiti di Kenzo, a schermi televisivi e atmosfere funk wave sinuose ed esotiche, Cate tratteggia un chiaro percorso per uscirne viva più che mai. Camminando sul crinale di una rigenerazione pop, lieve e allo stesso tempo profonda, sta guardando avanti. In tempi grigi come questi, ci sembra il miglior complimento possibile.