Chi si ricorda qual era la combinazione di tasti giusta per fare uscire un triangolo dalla tastiera del Mac?
Quando la critica musicale si prende la briga di inventarsi un nuovo genere vuol dire che siamo di fronte a qualcosa di grosso. Così gli Alt-J, già dieci anni fa, erano finiti dritti nel calderone del boffin rock, in quanto prototipo perfetto di college-nerd pronti a riempire le classifiche di riferimenti letterari, cadenzandoli in un puzzle di influenze, ritmi inciampati e inventiva estrema. Forse troppo bravi per dare vita a un vero e proprio movimento. Sicuramente cool abbastanza da far salivare forte la critica e ispirare orde di emulazioni già fallite in partenza.
Il fatto è che – l’ultima volta che ho controllato c’erano ancora cinque tizi di Oxford in giro a confermare la cosa – essere popolari non necessariamente implica rinunciare per forza ai propri istinti di sperimentazione. Non a caso proprio gli Alt-J sono stati da più parti pompati come i “nuovi Radiohead” e questa storia continua ad andare avanti, nonostante Joe Newman, Thom Sonny Green e Gus Unger-Hamilton non abbiano mai – fin troppo spesso, a dirla tutta – mancato di sottolineare che se c’è un motivo per cui la loro musica risulta (o almeno è risultata – come dimostrano un Mercury Prize in bacheca, milioni di album venduti e miliardi di ascolti registrati dalle statistiche dei servizi di streaming) in qualche modo accessibile, è proprio perché hanno sempre scritto le canzoni che avevano voglia di scrivere in quel momento, senza forzarsi a pensare troppo out-of-the-box o mettersi alla prova con soluzioni particolarmente originali o astruse. Il che potrebbe sembrare una contraddizione in termini con quanto appena detto. Ma anche no.
Perché successo significa pure prestarsi a bersaglio di parodie come questa, in cui due buontemponi dimostrano con i fatti quanto sia semplice comporre un pezzo che si intitola “Mettimelo nel c**o” usando solo un campionatore e due maracas, mentre sgranocchi gallette di riso comodamente svaccato sul pavimento della tua stanza, e farlo suonare esattamente Alt-J. Oppure sentirsi dire che nell’ultimo disco sembri la versione troppo rilassata dei Nine Inch Nails dopo che Trent Reznor ha respirato il contenuto di un palloncino gonfio di elio, a differenza del sorprendente debutto, che però alla fine non era poi così sorprendente, ma piuttosto quello che avremmo ottenuto provando ad ascoltare i Bombay Bicycle Club che cantano da dentro un sottomarino. Brutta bestia, l’invidia.
Comunque, poco importa. A sentire U&ME l’impressione è che finalmente gli Alt-J si siano abituati a un certo tipo celebrità: ora sanno esattamente cosa fare (ovvero una roba che sta proprio a metà tra i due estremi di cui sopra) ed esattamente quando farla (ovvero dopo quattro anni abbondanti di quasi completo silenzio – durante i quali anche i peggiori haters avevano iniziato a preoccuparsi – e cinque mesi abbondanti prima dell’uscita del loro quarto lavoro in studio – durante i quali soprattutto ai fan più sfegatati salirà una scimmia di proporzioni epiche).
Drum pattern piatto come una tavola, cantilena di alto livello, basso che pare strimpellato sopra un tappeto elastico, tastierine ciondolanti eppure fondamentali e chitarre sempre in agguato ma mai invasive. Tutto a posto, insomma, compreso un video a tema “paura e deliro allo skatepark” che vede gente presa bene con le rotelle affrontare esplosioni, tornado e terremoti al costo di schizzi di sangue dal naso, occhi ribaltati e rovinose cadute.
Fun fact per gli appassionati di gossip, gli ossessivi delle statistiche e gli animalisti apprensivi: la regia e le riprese sono del fratello del chitarrista/bassista (Prosper Unger-Hamilton), è la prima volta assoluta in cui in un loro videoclip ufficiale compaiono tutti e tre i membri della band, e nessuno si è fatto male sul serio.