Complessi con anima: si può, eccome.
Quando pensi al post-rock e alla categoria di artisti – oggi sempre più rara – che non sbaglia un colpo e parla solo se ha qualcosa di importante da dire, vengono subito in mente i Low, solidissima colonna di ciò che rimane della creatività in ambito “chitarre e dintorni”. Stupisce semmai che dei canadesi Suuns si parli poco. Incredibile, per una formazione che circola da un decennio e in bacheca ha cinque album eccelsi più una collaborazione con l’ispido Jerusalem in My Heart.
In questo percorso immacolato, i ragazzi di Montréal non hanno rinunciato a modificarsi, mantenendosi comunque ogni volta riconoscibili, con la disinvoltura e l’abilità tipiche delle grandi band. Aggiungete intelligenza, acume e serietà e avrete a disposizione gli indizi per la fatidica prova. Ancora scettici? Sappiate allora che il loro “dopo rock” ha assunto forme poco più levigate senza tralasciare l’attitudine a una musica ballabile per nevrotici pacifici. Che il gusto melodico sbilenco ma dall’elevato tasso emotivo adesso spinge a ipotizzare un lussuoso modern(ariat)o techno pop. Che in questo caso “sperimentalismo” non significa per forza indurre emicranie e/o perdersi in nefasti onanismi neo-prog.
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Nell’estasi mista di codeina e silicio disegnata da The Trilogy, il quadro della situazione viene gradualmente distrutto dalle fiamme e alla fine la cornice è vuota. Si tratta di un depistaggio, nient’altro. Dal bosco sullo sfondo escono i Cluster e Brian Eno, si siedono sorridenti nella radura e dal cestino estraggono un microfono che puntano verso il cielo azzurro. Lo stesso cielo verso cui, con stridori un po’ subliminali e un po’ no, sale un’irresistibile ipnosi sonora in forma di spirale.
Al di là di ogni possibile rimando, i Suuns maneggiano una cornucopia di idee e non fanno sconti a nessuno. A loro stessi per primi.