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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Quando l’unica forma di felicità sana che conosci è la noia.

La noia è forza, se ti annoi ti rispettano – diceva Saul Bellow, sbuffando posticci sospiri di circostanza. La noia è verità allo stato puro, ribadiva Jacques Rigaut, mentre tentava di ammazzare il tempo, convinto di mentire. Per tutto il resto c’è Netflix o i video su TikTok.

Megan Markwick e Lily Somerville la noia la mettono sul piedistallo dei sentimenti invece che nello scatolone dei semplici stati d’animo o delle patologie irrisolte e preconfezionate. Lo fanno senza vergogna e con il sorriso sulle labbra, coltivandola con la sottile ironia di un album che all’anagrafe fa Shame e – a modo suo – proprio a un sentimento specifico dedica ogni traccia, per un totale di otto cattivi pensieri da usare al bisogno in ogni condizione di disagio. Si parte dalla voglia di crocifiggersi per carità cristiana all’ansia dell’attesa che qualcuno lo faccia per te, dal senso di colpa insaporito con l’autotune a test di gravidanza da leggere come fondi del caffè, per arrivare a chiamarli – i sentimenti – con il loro nome: tristezza, imbarazzo, ossessione. Noia, appunto.

Se Shame dovesse avere una title track alternativa, quella sarebbe Bored. Trabocca verità e la mette nero su bianco con la forza fresca che accompagna vent’anni appena compiuti. Bellow e Rigaut ne andrebbero fieri. C’è un gustoso beakbeat a fare da base per una linea di basso rotolante e qualche scratch lo-fi che lascia il tutto in bilico tra synth pop e R&B. Quasi giocosa ma in chiave minore, intreccia una melodia ciclica che senza impegno ti chiama lenta verso un qualche dancefloor, mentre ti elenca in faccia con ben poco ritegno una lista più che esaustiva della bancarotta fasulla che è la tua esistenza al giorno d’oggi. Non manca niente: dalla «shit that you chat» all’«impatient perfectionism», dalla «hypernomalisation» al «my phone and the way that I use it», fino a un ritornello molto più smart di quanto sembri, che si spaccia come un mantra di fallimento ma altro non chiede che il coraggio di fare errori a cuor leggero.

Dopotutto le IDER con le emozioni hanno un rapporto di odio/amore di lunga data. Per dire, il loro debutto si intitolava Emotional Education e certo le due ragazze mai hanno mostrato incertezze nel prendersi cura delle vulnerabilità o timori nel celebrare l’imperfezione dei (ma soprattutto delle) loro coetanei/e. Definirle – se non altro in potenza – voce di una generazione sarebbe troppo, e in ogni caso stonerebbe tremendamente con il basso profilo che fin qui hanno provato a tenere. Ma la loro missione è evidente: portare un barlume di luccicante speranza a quell’età di transizione dove è così facile sentirsi soli con le proprie inquietudini. C’hanno provato in tanti. E in tanti ci son pure riusciti. Eppure, non è mai abbastanza.

IDER Megan Markwick Lily Somerville IDER 

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