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Thom Yorke (feat. Radiohead): Creep (Very 2021 RMX)
Thom Yorke remixato da Ryan Gajda

Thom Yorke (feat. Radiohead)
Creep (Very 2021 RMX)

Più che una folle autocover, un autosabotaggio. A guardar bene, una seduta di autoanalisi.

La prima reazione è: cameriere, anche per me la stessa roba che ha preso lui. Giusto prima di accorgersi senza troppo sbigottimento che il cameriere è in realtà solo uno spacciatore con il vassoio, s’intende. La seconda quella del battutista da quattro soldi che non disdegna un sano body shaming d’altri tempi: attenzione che a farsi le cover da soli poi si diventa ciechi. O se non altro ci si ritrova con l’occhio pigro.

Poi fai un attimo mente locale e la storia – i cui presupposti sono più che ben noti anche ai bambini – prende forma sotto tutta un’altra luce. Con lei, il remix stesso assume un significato e una valenza diversi e, nel frattempo, entra in loop subdolo, tappeto sonoro dilatato di questa vita di tutti i giorni che mai più sarà la vita di tutti i giorni precedenti. In cui ogni istante sembra uguale a quello prima e identico a quello dopo. In cui il tempo non passa mai finché ormai non è già passato. Non a caso si chiama Very 2021 RMX – le parole sono importanti.

Allora partiamo da un dato di fatto: se i Radiohead sono quello che sono oggi, il merito (o la colpa – il dualismo, anche questo è ormai appurato, è irrisolvibile) è di Creep. Scritta a fine anni ‘80 quando Thom Yorke era ancora all’università e incisa in un’unica take durante le prime sessioni di Pablo Honey dopo avere messo in saccoccia un contratto con la Parlophone, nessuno se la fila per un annetto buono. Poi finisce quasi per caso in rotazione su qualche radio indipendente americana e l’apparato promozionale dell’etichetta, assetato di sangue, costringe la band a un estenuante tour oltreoceano per capitalizzare fino all’ultimo cent il successo del singolo a posteriori. I cinque ne usciranno esausti, sull’orlo dello scioglimento e per sentire di nuovo «I wish I was special» dal vivo dovremo aspettare un’eternità.

È soprattutto il frontman che patisce più degli altri la drammatica crisi di rigetto, e non manca di esprimere il concetto con estrema chiarezza e parole forti. A stretto giro di interviste ribattezzerà la canzone “crap”, confesserà che dopo la sua uscita il gruppo è stato costretto a «suck Satan’s cock» (lascio a voi la colorita traduzione) e accuserà coloro che ancora vorrebbero fargliela suonare di essere «anally retarded» (espressione che non so come possa essere resa in italiano, ma non la prenderei comunque come un complimento, ecco).

Quindi, a cosa siamo di fronte? A uno psicopatico che vuole superare Vasco nel tentativo di sopravvivere ai colpi della contemporaneità e fa di tutto per rovinare uno dei suoi pezzi più famosi e amati dal pubblico, rendendo un involontario inno generazionale la caricatura di se stesso, direbbe il fan(atico) ferito. E invece no. Yorke prende una versione acustica e disadorna registrata probabilmente in cucina e la rallenta all’infinito, quasi costretto ad alterarne pure il pitch vocale. La priva del suo elemento caratterizzante (la grattata fuori tempo che Jonny Greenwood ci aveva infilato così, alla cazzo di cane – già autosabotaggio preventivo anche quello, si narra) e ci aggiunge dei synth che sembrano il clacson del 71 mentre bestemmia bloccato nel traffico della Tiburtina. Si mette a nudo di fronte al suo peggior incubo, fissa il cuore della sua idiosincrasia più grande senza abbassare lo sguardo. Se ne libera. Forse lo canzona senza pietà, forse lo ammazza ghignante, ma non è quello il punto. Ci si immerge dentro per nove lunghi minuti che srotolano un dito medio gigante in faccia alla radio edit di una MTV anni ‘90 e ne risorge a suo modo purificato. Eccolo, il punto: è una faccenda del tutto personale, che va al di là di ogni possibile operazione critica o processo alle intenzioni. Non a caso è una produzione presentata come Thom Yorke (feat. Radiohead) – le parole sono importanti. 

Eppure l’atteggiamento non è molto diverso da quello con cui gran parte di noi affronta la vita, costantemente alimentato dal desiderio inconscio di esercitare un controllo su lacerazioni incancrenite in merito a cui, alla fine della fiera, controllo non abbiamo. Perché infatti, anche a questo giro, nemmeno un tale, ennesimo – estremo ed estremista – lancio di dadi contro il proprio specchio riuscirà a ribaltare la narrativa ormai cristallizzata attorno alla band di Oxford e al suo principale – suo malgrado – rappresentante. La maledizione in termini che sembra averli colpiti. Il groviglio di critica da cui più si muovono e meno riescono a districarsi. Anzi, come al solito, finirà per allargare la forbice del dibattito. Hanno rotto ufficialmente le palle o rimarranno per sempre il futuro della musica? Sono degli innovatori spontanei o solo dei geni nel senso che intendeva René Ferretti? Ci stanno insegnando qualcosa o miseramente trollando dall’alto del loro essere i Radiohead?

Il fatto che, dopo trent’anni, ancora ci piaccia fare a cazzotti per dirimere la questione è già una palese risposta in sé. Ci potete arrivare da soli, e non sarò certo io a dirvela. È troppo divertente stare qua a guardarvi.

Thom Yorke (feat. Radiohead) Thom Yorke Radiohead 

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