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Big Red Machine (feat. Anaïs Mitchell): Latter Days
Aggiungi un bel po' di posti a tavola

Big Red Machine (feat. Anaïs Mitchell)
Latter Days

Come guardare dall’esterno qualcuno che decide di perdersi, di proposito.

Strana la storia dei Big Red Machine. Tutto comincia prima del 2009, quando Aaron Dessner manda a Justin Vernon una bozza di canzone su cui lavorare insieme per una compilation a scopo benefico. Poi una gestazione di dieci anni, un parto lento e ponderato che dà alla luce un omonimo side project che si fa fatica a definire side project e un album che si fa fatica a definire album, da parte di un duo che per essere un duo è fatto in fin dei conti da un bel po’ di persone: Lisa Hannigan, Phoebe Bridgers, Kate Stables, Richard Reed Parry degli Arcade Fire e pure il fratello di Aaron, Bryce — giusto per raddoppiare la quota di National sul tavolo. In generale, tutto il paio di dozzine di collaboratori che ruotano attorno al progetto PEOPLE, e alla non troppo fortunata piattaforma DIY nata per incoraggiare lo scambio e la condivisione di idee tra musicisti che gli stessi Vernon e Dessner avevano messo su nel 2018.

Con queste premesse, non è difficile intuire come la musica dei BRM sia difficile da giudicare secondo canoni e metriche standardizzate, fondamentalmente perché non ha la pretesa di vendersi come un prodotto ben definito, ma quella – ancora più presuntuosa (diranno gli haters) o romanticamente visionaria (ribatteranno i fan) – di evolvere costantemente lungo un processo indefinito. “Collettivo”, l’avrebbero chiamato negli anni Settanta. Ora è obbligatorio invece parlare di un digital space for artists dove questi possono sperimentare e creare senza l’ossessione di dover campare di annunci pubblicitari o risicate briciole di introiti da streaming. Facile riempirsi la bocca di paroloni del genere se sei i National o Bon Iver, diranno di nuovo i più polemici. È anche vero però che gente ben più “arrivata” di loro non si è minimamente – ed egoisticamente – posta il problema. Quindi tanto di cappello: tutto fa, nella piccola guerra indie contro il tracollo etico figlio di un generico (quanto ben noto) late capitalism.

E se processo indefinito doveva essere, inevitabile che arrivasse un secondo capitolo. Manco a dirlo, How Long Do You Think It’s Gonna Last? porta il concetto di feat su un livello che, in termini di assembramento, spaventerebbe anche un carosello di tifosi dopo la vittoria della Nazionale agli Europei di calcio: Fleet Foxes, Ilsey, Naeem, Sharon Van Etten, Shara Nova, Ben Howard e l’ormai immancabile Taylor Swift, in pieno rebranding alla larga dal pop più mainstream.

Quello che ne esce potrebbe essere una versione stinta dei National in cui il falsetto manipolato di Vernon prende il posto del baritono intimista di Matt Berninger, o la brutta copia di Bon Iver arricchita con pattern e strutture ritmiche leggermente più complesse ed estrose. E invece è inventiva digital soul con i nervi a fior di pelle, ninnananna appuntita che ti ammazza di nostalgia, vulnerabilità a cuore aperto che scoppia silenziosa come una bolla di sapone in un attimo di arcobaleno.

Prendete Latter Days. Vernon fischietta malinconico come un Andrew Bird innamorato male e rincorre la splendida voce di Anaïs Mitchell ricamandoci attorno qualche ottava avanti e indietro. Dessner ci srotola un pianoforte così essenziale da ricacciarti sotto le palpebre le lacrime dei ricordi e infiocchetta un sottofondo programmato sui bit ma con le mani di un artigiano.

Chiamatelo pure – con tutto il disprezzo di questo mondo – soft rock. Ma è una sensazione che sa di buono. Di quelle sensazioni così buone che, se prolungate fino a data da destinarsi, potrebbero pure dare alla musica un valore nuovo, più sostenibile, che mai avremmo immaginato.

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The National: Never Tear Us Apart
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