Nuovi sortilegi per un hip hop demoniaco.
Non sono in molti ad avere incrociato la strada con Ashanti Mutinta, conosciuta professionalmente come Backxwash. Ed è un peccato, perché si tratta di uno dei personaggi più significativi del nuovo corso di un certo hip hop distorto, evolutosi in qualcosa che non sia autotune e suoni di plastica. Insomma, c’è dell’altro, fortunatamente.
Nata e cresciuta a Lusaka (Zambia), Mutinta ha iniziato a rappare e produrre musica con Fruity Loops prima di trasferirsi in British Columbia (Canada) all’età di 17 anni per frequentare l’università di informatica. Le grandi iniziano anche con piccoli dettagli, no? Dopo la laurea si è stabilita a Montréal, dove ha iniziato a esibirsi nelle jam underground e a dichiararsi transgender, ripercorrendo pian piano un passato e una cultura intrisi profondamente di mito e dogmi.
God Has Nothing to Do with This Leave Him out of It, il suo primo full-length ha vinto il Polaris Prize, fondendo l’hip hop con l’heavy metal e la musica psichedelica, soprattutto quella della scena di Montréal, appunto (non sono pochi infatti i campionamenti dei Black Sabbath e gli interludi strumentali dei Godspeed You! Black Emperor!). Proprio a causa dell’uso di questi campionamenti espliciti, l’album però conteneva numerose evasioni ai diritti d’autore e dunque è stato successivamente rimosso dai negozi di musica online e dai servizi di streaming (ora è infatti disponibile esclusivamente come download gratuito dalla pagina Bandcamp di Backxwash).
Crude, viscerali e soffocanti, le atmosfere di Mutinta sono merce rara in campi come questo. L’attraversamento del dolore come possibilità futura di catarsi sembra all’ordine del giorno anche in questo nuovo lavoro. Sebbene non si consideri più una cristiana, Mutinta è ancora perseguitata dalla dicotomia riduttiva tra bene e male che spesso accompagna la religione. La sua musica suona come un grande esorcismo, con ritmi pesanti – terrificanti e impressionanti nel senso biblico della parola.
I Lie Here Buried with My Rings and My Dresses conferma alla grande le premesse del suo predecessore. Basta ascoltare la title track (in cui appare anche Ada Rook dell’ormai defunta band Black Dresses, che ha curato anche il master) per tornare ad assaporare quel panorama abrasivo, contaminato, libero da schemi fissi eppure capace di fondarsi su un pattern chiaro che è l’hip hop contemporaneo.