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Wolf Alice: Smile
Già stai ‘mbriaco eh?

Che noia essere una rock band di successo in questi anni Venti!

C’è un verso che magari non ti aspetteresti, proprio alla fine della prima strofa di Smile: «I am what I am and I’m good at it», grida Ellie Rowsell come sull’orlo di un qualche punto di rottura, preda di una rabbia sicuramente giustificata, «and you don’t like me, well that isn’t fucking relevant».

Non che incazzarsi non le si addica, è proprio il tono arrogante, quasi sbruffone, che suona strano. Non capisci bene se ci è o ci fa. O comunque quanto ci è e quanto ci fa. Perché se da un lato non bisogna dimenticare che è la stessa che nemmeno cinque anni fa cantava «I wanna fuck all the people I meet», dall’altro l’immagine pubblica che ha sempre tenuto a dare di sé è quella di un’artista sensibile, ai confini del sospettoso, che nelle interviste (forzature dei titolisti escluse) non si è mai lasciata andare a troppi statement acchiappa-lettori. Insomma, una che – nonostante sia finita su Vogue – è sempre sembrata più la sorella maggiore da guardare con venerazione perché suona la chitarra in una band, che una maledetta rockstar mangiauomini che sprigiona un carisma ultraterreno.

Dal primo lato consideriamo in ogni caso che gli Wolf Alice di motivi per essere un po’ sboroni ne avrebbero eccome: due album in Top 5, un Mercury Prize e una nomination ai Grammy in saccoccia – mica poca roba per gente che comunque di strada ne ha fatta e soprattutto si è trovata a farla in un momento in cui il buon vecchio indie rock non se la passava proprio benissimo. Dal secondo tocca comunque ricordarci di quando abbiamo visto il documentario a loro dedicato da Michael Winterbottom dove l’intera cronaca del tour – malgrado folle imponenti di pubblico e ragguardevoli file fuori da locali stipati di gente – invece che rivelarsi un delirio di sesso e coca, viene ridotta a una «horrific form of camping».

Blue Weekend è appena uscito e segue la stessa dualità altalenante che i più ottimisti chiamano eclettismo e, nel caso specifico, potrebbero anche averci azzeccato. Melodie potenti che sanno tenere assieme chitarre martoriate e arpeggi pulitissimi, cori eterei, crescendo di archi e atmosfere rarefatte, ballad malinconiche e ammiccamenti che vanno oltre il semplice grunge/shoegaze, indietro fino al nice punk delle Elastica – come nel caso di Smile appunto, in cui l’intensità emotiva non disdegna un flow quasi rappato, che esalta la versatilità della Rowsell, capace di abbracciare più registri con uno stile che a tratti evoca Kate Bush, a tratti Karen O degli Yeah Yeah Yeahs, a tratti la sorella maggiore di cui sopra, cool come poche, ma mai uscita dalla sala prove.

Insomma, quando vai a tirare le somme le chiacchiere stanno di nuovo a zero, i risultati parlano da soli e l’ambizione certo non manca. Mica a caso il tutto è stato prodotto da Markus Dravs, uno che ha lavorato con Coldplay, Arcade Fire e Florence and the Machine, ovvero non certo il tizio che chiami al telefono solo perché sa esattamente a cosa servono tutti quei pulsanti sul mixer, quanto piuttosto un finalizzatore di lusso che tiri in ballo quando hai tutti i pezzi già pronti ma – guarda caso – entra in scena una pandemia mondiale e così ti ritrovi con più di un anno a disposizione in cui ammazzare il tempo a rifinire ogni particolare con un fenomenale lavoro di cesello (true story).

A tal proposito, c’è anche un video da guardare. Parla di cosa può succedere in un pub la sera del liberi tutti, dopo diciotto mesi chiusi in casa a ubriacarsi da soli, fino a dimenticarsi come era fatta davvero una birra alla spina. Paura eh?

Wolf Alice Yeah Yeah Yeahs 

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Wolf Alice: Sad Boy

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