Il volto pacioccone di un’apocalisse vernacolare.
Till Lindemann è un mistero. Nel suo sguardo e in quel vocione baritonale c’è qualcosa di apocalittico: una fine del mondo algida e compita, fatta di geometrie ferree e conteggi esatti. Poi c’è un aspetto più cruento e vernacolare che affiora e ci trascina in qualche olezzante tugurio bavarese, dove cazzotti e rutti sono la pancia e la speme di un Reich estetico mai digerito.
Hic Hasse Kinder è il Lindemann che tutti vogliamo, tra piano e forti, urla militaresche e incedere sardonico, ma con un piglio sempre più greve e pagliaccesco, al punto che sembra quasi di vedere una versione infernale di Falco. Per fortuna ci pensa il lirismo, planante su tastiere come zattere di ghiaccio nel grande e freddo nord, a portarci via da una sensazione caricaturesca, un po’ sfuggita di mano all’ossigenato e corpulento nazicomunistein.
Sì perché Tillone non ha mai smesso di sbattere in faccia quel sinistro nerborume ariano alle moderne platee revisioniste, incorporando sia il diavolo biondo di Hitler che – come in questo caso – il Frankenstein dal colbacco paranoide dell’Est, inscenando più che mai qui un figlio totalitaristico che, facendo riferimento al suo nuovo taglio, è decolorato di qualsiasi assoluzione partigianesca.
Till Lindemann Rammstein ich hasse kinder spiegazione
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