Acqua triste, acqua chiara.
Insegna la biologia che le cellule del nostro corpo si rinnovano completamente ogni sette anni e la psicologia sostiene che una trasformazione interiore ha luogo in cicli settennali. Seguendo una tradizione che risale fino a Ippocrate, il settimo anno è il fatidico momento in cui cambiamo, con tutto quel che ne consegue per un artista.
Difficile insomma credere che sia un caso se il prossimo novembre Damon Albarn metterà proprio un intervallo del genere (più spiccioli) tra Everyday Robots e un nuovo disco solista. Essendo il primo un capolavoro per forza di cose irripetibile, la title track di The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows cerca di fare i conti con il periodo di pandemia che i toni raccolti e meditativi del precedente lavoro avevano inconsciamente anticipato.
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Concepito inizialmente come una composizione orchestrale ispirata all’Islanda, l’album si è poi sviluppato – trattenendo comunque qualcosa dello spirito originario – attorno a un metapop incentrato su fragilità e rinascita. Quest’ultima è ovviamente la chiave interpretativa privilegiata: per molti, l’anno e mezzo trascorso a modificare il quotidiano in una lotta di resistenza è servito anche a riportare il senso dell’umano al centro delle cose. Ora che dobbiamo ricostruire da capo le relazioni con l’esterno e gli altri, l’arte diventa più che mai una fonte di riflessioni.
Difficile stabilire con certezza se sia lei la corrente pura citata nel titolo oppure, come afferma il diretto interessato, la fiducia nel futuro dopo tempi bui. Di certo, l’immaginario intimista e “liquido” del Robert Wyatt di Rock Bottom funziona sempre da bussola quando Albarn sceglie di dedicarsi all’introspezione solitaria. Su quelle fondamenta trasfigurate, un’estatica e delicata melodia fluttua senza gravità lungo traiettorie sospese. Riverberando l’attualità, il cambiamento si compie attraverso specchi d’acqua azzurra e malinconica.