Guardando quel che resta dell’inverno. In cagnesco.
Già incensato come completo capolavoro, IRA di Iosonouncane è, effettivamente, con i piedi per terra e senza esagerazioni, un disco molto coraggioso. Se fosse restato in ambito indie italiano – dove la mancanza di concorrenza poteva già servire da sé per un successo specifico – e avesse seguito l’onda dell’hype che ormai lo circonda, contando come sempre sulla personalità che certo non gli manca, il progetto di Jacopo Incani poteva veleggiare in sicurezza verso lidi dove svettare completamente e senza troppa fatica.
Il seguito di DIE invece decide di virare verso un “post-qualcosa” di respiro (e linguaggio) più internazionale, scavando la voce nel mix (quanto di meno consono al panorama delle produzioni italiane) e rumorizzando elettronicamente un mondo intero, dilatandone i tempi, puntando su un lato artistico libero e incontaminato, che rifiuta il pezzo diretto e punta dritto all’all-in, inteso in termini di atmosfera.
Nonostante il tutto risulti forse eccessivamente prolisso, il primo pezzo del disco, Hiver, riesce a brillare di grazia propria, come la punta di un diamante puro. I timbri acustici dominano l’incedere e ricordano immediatamente le derive che furono dei Les Discrets (difficile non sentirci la somiglianza con i brani di Prédateurs), pur inserite all’interno di panorami di influenze ben più note: Nine Inch Nails, Scott Walker, Can, Dead Can Dance e compagnia bella.
I testi mostrano linguaggi differenti e sfruttano una voce quasi nascosta e sepolcrale, rivelandosi ancora marchio di fabbrica di un artista libero, personale e probabilmente davvero autentico, che considerare ancora “italiano” vorrebbe dire legarlo a una zavorra eccessiva. Anche se non perfetta, una musica ricca e contaminata come questa non merita di certo di essere confinata in restrizioni del genere.