Le creature del regno oscuro e l’eterna questione tra buono ed esteticamente ostile.
I Bloodbound sono tra le poche power band metal che ancora riescono a suscitare interesse e mantenere una certa credibilità, a distanza di quasi vent’anni dal tempo in cui gruppi del genere spuntavano come funghi ogni settimana sul mercato euroasiatico e a cui le riviste specializzate, in sede di voto recensorio, invece di dare sette o nove finirono per tirar contro tutto il pallottoliere. Come tutte le stagioni favorevoli del mercato, di quel fenomeno gioioso, pomposo e ingiustificabilmente ottimistico, non è rimasto pressoché nulla. Tranne i Twilight Force. E i Bloodbound, appunto.
Gli elfi con l’arco a sei corde sono riusciti a conquistare e disfare l’entusiasmo critico in un paio di dischi, mentre questi cornuti cugini di Svervegia tengono duro, in modo abbastanza inspiegabile, visto che annegano nelle tastiere e negli armonismi quasi tutte le buone idee, ma di tanto in tanto imbroccano una “bellodia” così radiosa e spedita, che è proprio la strada delle fanfare a esaltarla al massimo.
Creatures of the Dark Realm riesce laddove i Lordi falliscono da troppi anni, danzando sulle punte nel vischioso ballroom del pacchiano esoterico. C’è un ritornello così guilty pleasure da sfociare quasi nel penale, associato a un’attitudine burina e che va al sodo senza quasi nessun interludio Bontempi. Quattro minuti che restituiscono al metallo le selve di spade, i fiumi ribollenti e le plananti e pindariche eiaculazioni fantasy-nerd.
Ciliegina sulla torta (o forse l’esatto contrario – de gustibus), un Patrik J Selleby che sembra la versione luciferina di Giuliano Sangiorgi. E non solo a livello estetico.