Questa tristezza è pari a tutta la tristezza del mondo.
Ancora nessuno la conosce, ma già tutti parlano di Arooj Aftab. Un paradosso insomma, ma è proprio così che ormai funziona nell’era della musica digitalizzata. Le sponsorizzazioni, i passaparola, i consigli algoritmici, così come una buona padronanza di quel mistico acronimo chiamato SEO sono i nuovi burattinai dei nostri ascolti “di nicchia”. Non solo – e non di certo – Pitchfork, quindi.
Poco male, però, quando si tratta di pezzi come Mohabbat, probabilmente una delle migliori canzoni che ci è capitato di sentire durante questo 2021: in grado, cioè – in maniera naturale e autentica – di innestarsi in quel panorama mediorientaleggiante che sembra ormai la frontiera preferita del neofolk. Almeno per gli americani. Soprattutto in grado di farlo in una maniera magica, spogliandolo ulteriormente degli strumenti tradizionali (già usati nei precedenti lavori) e non nascondendo la nuova prospettiva in qualche modo occidentale.
La Aftab è infatti di stanza a Brooklyn (con un retaggio di studi bostoniano), eppure di pakistano sembra avere ben più che la superficie esplicita che il nuovo Vulture Prince richiama. In altri termini, ben più di quella patina che alcuni potrebbero addurre come mera estetica. Le diramazioni effettive sono quelle già affrontate da Yasmine Hamdan – qui meno eclettiche e più miti – o della regina del sufi, Abida Parveen, ma la bellezza intrinseca della Aftab sta nel fatto che lei, dal canto suo, mescola e abbina queste tradizioni non con l’esitazione goffa e rispettosa di un estraneo, ma con l’intimità consapevole di un iniziato.
Il disco, dedicato alla memoria del fratello minore Maher, è tinto di poesia ghazal – intrisa di perdita e desiderio, connotata d’amore sia mortale che divino, di solito in monorima, tipica di tutta la cultura letteraria islamica. Con lo spirito folk di un deserto meditabondo e colpito dalle vessazioni altrui, la chimica risulta di quelle efficaci per “entrare” dentro la musica. Per apprezzarla, e forse per comprenderla. Sicuramente per farla brillare di luce propria.
Mohabbat è infatti un ghazal originariamente scritto da Hafeez Hoshiarpuri, trasformato in un’esplorazione a fuoco lento sul dolore della separazione. «Zamāne bhar ke ġham yā ik tirā ġham» (“questa tristezza è uguale a tutta la tristezza del mondo”), canta la Aftab. La sua voce fluttua così dolcemente nel torpore della morte che sembra uscirne quasi incolume, portando dietro quella luce scovata solo in un altro mondo. Anche non fosse il vero Medio Oriente, sarebbe sicuramente una porta per intravederne il fascino.