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Sacred Oath: Empires Fall
Le occhiaie di chi ha preso coscienza

Finalmente il mondo del metal fa i conti con la realtà.

Importante rendersi conto della realtà, magari non accettarla ma almeno affrontarla, senza negazionismi sterili e infantili. I Sacred Oath si presentano con tutta la loro paccottiglia di bei riffoni fischiati, assoli speediti e armonizzazioni egizie, ma quando è il momento di cantarle, aprono il cuore e sprigionano tutta una serie di incertezze e ombre inedite per l’attitudine borchiata. Cosa accadrà quando gli Iron Maiden andranno in pensione, chi prenderà il posto dei Metallica? Saranno i figli all’altezza dei padri?

La risposta di Empires Falls è inequivocabilmente un no. Tutto finisce prima o poi e per quanto continueremo a sognare e cullarci dentro le stesse melodiose rivalse da adolescenti respinti, le cose succedono, continuano a succedere e cambiano la sedia da sotto il sedere del più duro culo ricoperto di pelle e catene.

Così, di malinconia in malinconia, tra un addio a Van Halen e uno a Neil Peart, anno dopo anno, gli imperatori e i re ci lasciano, ma – tre una svisata e un pianto sulla copertina di Powerslave – il vocione alla Hetfield di Rob Thorne ci rinfresca l’anima con melodie struggenti e dannatamente efficaci.

Di certo vedere Ozzy che invecchia in mezzo a tanta morte è la beffarda speranza di vita eterna di un popolo che inizia decisamente a pensare al domani, cosa che non fa dal 1981.

Sacred Oath 

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