Tutto l’amore che ci aspetta nella strada che abbiamo scelto per evitarlo.
Io che i miei vent’anni li ho finiti da un pezzo e iniziati da dieci anni più di un pezzo (la matematica non è un’opinione, dicono – anche se a me sembrano durati un paio) credo di poter permettermi per un attimo di fare il nostalgico noioso, quello che quando aveva vent’anni lui tutto era più bello e aveva un altro sapore e quindi mettere le mani avanti e ammettere ufficialmente che a me Francesco Motta piaceva più con i Criminal Jokers, riguardo ai quali – così a margine e giusto per rimanere nel personaggio – mi prendo il lusso di aggiungere un’altra frase fatta, ovvero: uno dei gruppi più sottovalutati del nostro sottobosco indie.
Premessa questa che, oltre a presentarmi in tutta la mia splendida autoironia, mi permette di passare in scioltezza alla seconda fase del discorso, cioè quella in cui vesto subito a seguire i panni del vecchio illuminato, che nonostante tutto riesce comunque a riconoscere l’importanza di un personaggio così per la crescita musicale del Belpaese, anche contro i suoi gusti e i suoi rimpianti. Sì, perché il Motta solista e italianissimo – se si escludono un paio di discutibili passaggi alla Manu Chao – ha fatto indubbiamente centro fin da subito, si è confermato efficace senza particolare fatica né scandalosi compromessi, e ora si mostra sul pezzo, continuando un discorso artistico peculiare eppure ancora (forse, ancora di più) accessibile.
Parliamo di suoni, certo, ma soprattutto di scrittura in senso lato. Scrittura, quella di Motta, sempre estremamente incisiva: asciutta ma personale, ripetitiva ma concreta, asimmetrica ma per nessun tratto stanca, continua a cantare il disagio contemporaneo senza mai piangersi addosso né cadere in quella facile forma di difesa chiamata sarcasmo che affligge le opere di molti suoi colleghi e coetanei. Scrittura che diventa intensa proprio giocando sulla sua natura precaria, sul suo raccontare e raccontarsi quella che è sì una conclusione scontata, ma allo stesso tempo può e deve essere un inizio.
Così finisci per amarlo lo stesso, Francesco Motta. E gli perdoni tutto. Gli perdoni il giubbottino di paillettes, e l’atmosfera disco-industrial da balera illegale rubata a un immaginario subsonichiano. Pure il video con il testo proiettato sul muro del capannone, gli perdoni. E quella voce quasi fastidiosa, e quel cantare che diresti stonato. Finisci per amarlo, perché, anche se nessuno è perfetto, nessuno cambierà mai – questo è appurato. La novità è che vale sempre e comunque la pena di restare, per vedere se davvero (e fino a che punto) l’insistenza anacronistica con cui ci troviamo a rimanere noi stessi contro la nostra volontà può, a conti fatti, salvarci a dispetto di ogni pronostico.