Il punk non è morto, ha solo cambiato pelle, e frequenze.
La forza e la potenza del punk stava nell’efficacia della sintesi: due accordi, poche righe di testo a mo’ di slogan, niente fronzoli.
Quello che poi è stato sdoganato negli anni ‘90 come tale (vedi: Offspring, Green Day e simili) del movimento originale aveva solo la parte in eccesso: alla fine ci si trovava di fronte a delle rock band con i capelli verdi, giusto un pelo più dirette, ma a cui mancava lo spirito ultimo del movimento che fu.
Per quello quando si sentono brani come questo Anger la prima cosa che viene in mente è il punk vero, anche se a un ascolto superficiale sembrerebbe tutt’altro. Perché a ben vedere gli ingredienti principali ci sono tutti: un testo scheletrico e chiaro, un loop elettronico tanto semplice quanto d’effetto, cassa dritta e produzione minima, il tutto in poco più di due minuti. Non un pugno (quello era l’hardcore), ma uno schiaffo dritto in faccia, una scossa inaspettata, improvvisa e proprio per quello dolorosamente efficace.
L’attitudine è encomiabile e per chi, leggendo il testo, si domandasse «sì, e quindi?», va ricordato che il punk di per sé esprimeva stati d’animo di una generazione immersa in un determinato contesto storico. Ora siamo nel 2021, e il mood generazionale è ben rappresentato (nel bene e nel male) nell’apparente arrendevolezza della rabbia descritta dai misteriosi Kokeshi Milk. Non capirlo sarebbe l’evidenza dell’invecchiamento cerebrale che inesorabilmente avanza. Nel caso, prenderne atto può far soffrire meno.