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Alice Merton: Vertigo
I reggiseni senza ferretto li avevano finiti, da Tezenis

State pronti a chiedervi di nuovo: di chi è la canzone usata in questa pubblicità?

Da qualche parte, in una zona d’ombra dell’universo rock moderno, c’è una realtà parallela in cui le cantautrici da cameretta diventano dive alternative. Se passate da quelle parti, chiedete di Alice Merton. Dovrebbe essere ben nota agli abitanti del luogo, visto che l’hanno eletta loro regina.

Ve li ricordate quei grandiosi album pop di un tempo, da cui potevi pescare a caso – e a piene mani – sicuro di tirar fuori una hit da classifica al 100%. Era un po’ che ne avevamo perso le tracce. Esistevano ancora i CD e il vinile era diventato improvvisamente una cosa da vecchi. Potevi aprire il case (senza mancare, prima, di aver maledetto l’adesivo catarifrangente della SIAE) e tirare fuori il booklet, oppure ribaltare la confezione e indicare col ditino – e a occhi chiusi – una riga a caso della tracklist scritta sul retro, certo che saresti comunque cascato bene. Suoni nitidi e rotondi che colpivano la pancia e il culo prima ancora dei timpani, compressi quanto basta per fregare l’orecchio del bovaro poco attento, ma mai in maniera così esagerata da ammazzare tutte le dinamiche sull’altare di un generico impatto. Produzioni patinatissime eppure grintose, caramelle che facevano all’istante aumentare la salivazione ma non necessariamente salire il diabete oltre livelli di guardia.

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Per questo, un paio di anni fa, abbiamo accolto Mint con l’euforia malsana dei drogati in lunga crisi di astinenza, gli occhi lucidi di chi rivede un parente che credeva morto e il timore reverenziale di quello che non ci crede: era un disco così perfetto che quasi faceva spavento. Undici pezzi che avrebbero potuto essere tutti dei singoli. Anzi, molti già lo erano, o poi lo sono stati.

Cosa succederà con il fatidico secondo album, nessuno può dirlo. Però intanto Vertigo non abbassa il livello, anzi. Sfoggia la paraculaggine da big anthem della sua omonima a firma U2 e la voglia di viversela due volte dell’involontariamente citato film di Hitchcock. Sprizza energia power-house da tutti i pori e galoppa imbizzarrita come le migliori cavalcate dei Muse, ma senza la pacchiana sofisticatezza hi-tech, gli assoli rubati a un Bach sotto steroidi e le giacche con troppe spalline napoleoniche di Matthew Bellamy. Ci sono delle chitarre quasi alt-industrial e le solite ritmiche da Stomp che la fanno assomigliare a un inno buono per essere ritmato dai tamburi di un esercito di Vikings. E poi la voce, il vero marchio di fabbrica: un po’ Adele di strada, un po’ Florence senza la Machine, un po’ Katy Perry improvvisamente catapultata in un futuro cyberpunk.

A volerle trovare un difetto, quell’infido ritornello quasi rappato che ti vien subito voglia di cantare a squarciagola nel prato di uno stadio insieme ad altre cinquantamila persone. Mica per altro, è che rischia di essere arrivato con troppo, ottimistico, largo anticipo.

Alice Merton 

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