Mosche bianche. Anzi, meglio: pavoni.
Il pavone, povera bestia, è preceduto dalla sua fama. E non è una fama di cui andare troppo orgogliosi, in genere. Stereotipo incallito ancor prima che meraviglioso animale, vive costantemente circondato dal sospetto di essere troppo bello per essere vero e – di conseguenza – da quella fastidiosa aura d’invidia, che alimenta subdola il luogo comune secondo cui l’avvenenza di per sé è più che sufficiente a campare di rendita e che quindi non sia richiesto nient’altro che metterla adeguatamente in mostra per avere le porte giuste spalancate senza troppi sforzi. Il brutto verbo che ne deriva ha etimologia zoologica non a caso, si sa.
E dire che sia Stefano Giovannardi che Francesca Bono, di pavoneggiarsi, ne avrebbero ben donde. Lui – biologo, ricercatore e docente, ma anche musicista e produttore attivo sin dagli anni ‘80 – vanta un gusto per le armonie elettroniche fuori dal comune e un passato più che attivo nel seminare buoni propositi nel campo di un certo underground italico di alta qualità (le collaborazioni con Alex Cremonesi e Cesare Malfatti dei La Crus su tutte). Lei, una voce tanto atipica quanto difficilmente dimenticabile, doti di polistrumentista non trascurabili e un contributo non indifferente alla stessa scena con gli Ofeliadorme (di cui ricordiamo l’ultimo album prodotto da Howie B e un’ospitata non da tutti sul sito di Peter Gabriel – giusto per ruotare un po’ le piume, che quando ci vuole ci vuole).
Il pavone bianco ancora peggio. Come tutte le storture genetiche che generano per caso pezzi unici di raro fascino, incute timore al posto di incanto, e spesso finisce per condividere piuttosto l’amara sorte della pecora nera. Rischio scampato con classe, qui, dove White Peacock si prende invece la sua meritata rivincita. In un caleidoscopio di colori stratificato dentro un unico fascio di luce immacolata, mischia i Massive Attack più eterei (tiriamo pure in ballo Teardrop, senza la minima soggezione) con i futurismi post-rock – vagamente industriali, ma perfettamente strutturati – di progetti raffinati come gli How to Destroy Angels.
XX esce sotto il moniker Structure e mette insieme due copie dello stesso cromosoma, quelle che nell’Homo sapiens vanno a determinare il genere femminile. Ma anche due copie dello stesso numero romano che si conta sulle dita delle mani, da cui la collaborazione con dieci cantautrici (una diversa per ogni traccia) che contribuiscono ad aggiungere suggestioni sonore e melodiche a un lavoro già complesso e ambizioso.
Perché l’accusa di pavoneggiarsi dietro a un’incontestabile appariscenza, in una società patriarcale come la nostra, indovinate un po’ a chi, quasi sempre, è ingiustamente rivolta? Esatto. Ecco, questo è (anche) un modo – magari solo più ricercato, magari alla fine pure più efficace – di andare oltre i soliti, poco produttivi, dibattiti tra direttore e direttora.
Structure (feat. Francesca Bono) Structure Francesca Bono Ofeliadorme Stefano Giovannardi