Gente arrivata tardi alla festa. Peccato.
Gli Electric Boys – svedesi funky-glamster di gran pregio – hanno avuto la sfiga di presentarsi sulle scene street metal quando la gigantesca piramide stava ormai collassando. Non è il caso di tirar fuori ancora la parabola del grunge e i cattivoni delle major, MTV e tutto il resto – i rockettari anni ‘80 sanno di cosa sto parlando – ma è un fatto che questo gruppo sia stato tra le poche realtà davvero interessanti venute fuori tra il 1990 e il 1994, durante la megadepressione post-party losangeliana.
Ancora in formazione pressoché originale, il quartetto svedesotto nell’ultima decade ha realizzato altri quattro grandi album nell’indifferenza generale. Super God è un buon esempio di quello che sono sempre stati capaci di fare. Un bel riffone sincopato e trascinante, un tiro da grandi e l’esplosione melodica molto beatlesiana. Il clip freak è un po’ lisergico e sembra quasi portarli dalle parti dei Monster Magnet dei giorni nostri: d’altra parte, anche di questi tempi l’attitudine stoned fa fico e l’approccio rétro ancora di più. Loro però erano così già nel 1992, ai tempi dell’immenso Groovus Maximus.
Il brano vi condurrà – in uno scapocciamento un po’ dimesso – dritto in bocca a un tunnel cosmico, dove un Super Dio fantomatico si nasconde nell’oscurità, in attesa che qualche vecchio fedele del rock voglia ancora convincerlo ad accettare la propria offerta di adorazione. Gli Electric Boys officiano questa riconciliazione mistica con un ritornello che ha la grandiosità di quando la musica heavy non conosceva crisi d’identità di nessun genere, ma parlava la solenne lingua del dio nero delle piantagioni. Amen.