Distinguersi nella folla: chi ha detto che debba essere per forza necessario?
Se nessuno è profeta in patria, solo pochi sono profeti in vita e in genere il valore del lascito di ognuno si conta con il pallottoliere solo dopo che il tizio in questione ha abbandonato le sue spoglie mortali. Con tutti i bias del caso, s’intende. Compreso il fatto che pare brutto sputare nel piatto dove si è mangiato, ancor meno se quel piatto è quello del catering di un funerale più o meno fresco. La cosa dura da accettare è che lo si fa in termini – badate bene – di nuda, cruda e ben poco glamour quantità, perché la qualità – fatevene una ragione – è soggettiva e qualunque statistica degna di questo nome le riderebbe in faccia senza fare troppi complimenti. Alla fine della fiera, insomma, il numero di cloni all’anno che in media sei riuscito a generare dopo che sei andato al creatore misura la grandezza che ti ha contraddistinto quando al creatore (se non altro metaforicamente) ci mandavi gli altri. Chiedete a Mark E. Smith per conferm… ah no, difficile chiedere a Mark E. Smith, per quanto appena detto. A meno che non abbiate a portata di mano una tavoletta ouija, dico. Ok, ricominciamo.
È facile ascoltare roba così e alzare gli occhi al cielo in segno di sgomento, fastidio e rassegnazione di fronte all’ennesima band post-punk wannabe che la butta in politica e snocciola – con voce baritonale che oscilla tra due note al massimo – proclami incazzati su che mondo di merda ci è toccato in sorte di vivere. Ma il fatto è che vedere Ultra Mono degli IDLES debuttare al n. 1 in Inghilterra l’anno scorso dovrebbe averci insegnato qualcosa. Che il cosiddetto revival post-punk d’oltremanica è ormai arrivato alla frutta, diranno i miei piccoli analisti radical chic. Forse, ma anche che – d’altro canto – questa cosa è ormai evoluta al punto di non necessitare più di nessun revival. È qui, e ci resterà per un bel po’. Tipo per sempre. Scordatevi quella storia dei generi musicali ciclici che tornano di moda ogni vent’anni. Son più di vent’anni che ce la raccontiamo e nel frattempo il tempo che è passato ci ha tolto le parole di bocca. Post-punk ormai è come rock, o jazz, o metal. Parole che non significano niente, ma che quando le dici tutti capiscono a cosa ti stai riferendo. O comunque annuiscono complici per non fare brutta figura.
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E allora ben vengano i TV Priest, che hanno avuto il coraggio di formare una band in piena pandemia e la capacità non scontata di tirar fuori un disco d’esordio sensato e compatto, che va a riscuotere – anche meritatamente, sotto certi aspetti – i dividendi conseguenti alla presa di coscienza che il post-punk, appunto, ha ormai colmato quel gap che c’era una volta tra certe creste ipoteticamente arrabbiate e tutto il resto. Partendo dalle tendenze art funk dei primi Talking Heads per arrivare al rock urticante, grezzo e senza peli sulla lingua degli Shame, Charlie Drinkwater (un cognome a metà tra dichiarazione straight edge e anagrafica presa per il culo) si ingarella con Joe Talbot sia in termini di incapacità melodiche che di importanza del baffo, mentre declama caustica satira sociale che non sai se ridere o piangere. La musica va via dritta alla pancia, come vuole il regolamento in materia. I video (vedi questa Press Gang, o un altro singolo a caso) sono piccoli corti di grottesco applicato al reale, che dalla cronaca obiettiva del reale stesso non vanno poi così lontani. Se poi volete ancora star qui a lamentarvi di quanto il suono del basso sia “derivativo”, fate pure. Ma occhio, che si diventa ciechi.