Nerd tedeschi di una certa età, sempre più bravi a semplificare il loro stesso caos.
Per anni è sembrato come se in Germania ci fossero un branco di sfigati in fissa con la musica e ossessionati dall’idea – in materia – di cambiare le carte in tavola. Senza però, a quella stessa tavola, avere nessuna intenzione di sedersi, né tantomeno partecipare al banchetto se non per qualche assaggio di tartine ai wurstel rubate dai vassoi del catering. 10-15 geek da conservatorio futurista, pieni di idee geniali e ben confuse, suddivisi a girare – diciamo a turno e forse pure a caso – tra una manciata di band finite sotto i riflettori giusto per sbaglio e controvoglia, per quanto meritatamente. Facciamo i nomi: Lali Puna, Console, 13 & God, Tied & Tickled Trio, Ms. John Soda. Era la fine degli anni ‘90 e andava di moda mischiare le cose: elettronica, indie rock, punk, sospiri acustici e incursioni jazzate. Ma lì hanno esagerato: computer craccati, circuiti riprogrammati da zero – a un certo punto anche lo sfizio di suonare i synth senza toccarli, da remoto, manovrandoli con i telecomandi della Wii, in pratica la versione del theremin filtrata dalla mente distorta di uno dei finalisti del Nintendo World Championship. L’hanno chiamata indietronica, folktronica – qualcuno a corto di termini anche semplicemente post-rock, generando così un conflitto in termini ancora irrisolto con quelli che ascoltavano i Mogwai e i GSYBE!
Il collante di tutta la faccenda sono sempre stati un’etichetta – la Morr Music, che ormai è praticamente sinonimo di un genere musicale e ancora ci campa di rendita – e l’unica band che manca dalla lista di cui sopra – quei Notwist che del restare nell’ombra ne hanno fatto uno stile di vita e della contaminazione musicale una ragion d’essere.
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Inevitabilmente non troppo prolifici sotto il loro proprio moniker (ma iperattivi se contiamo appunto tutti i progetti paralleli a cui hanno preso parte e tenuto a galla) anche questa volta non si smentiscono, né in termini di attesa – il nuovo Vertigo Days arriva a sette anni distanza dal precedente – né per quanto riguarda la cervellotica qualità della proposta. Quanto la proposta in questione sia ancora rilevante ai giorni nostri è materia per discorsi fritti e rifritti, ben più della proposta stessa. Il talento qui sta di nuovo – e sempre di più – nel saper dare un ordine ben preciso a sentimenti più che disparati, convogliare influenze premeditatamente improbabili in un tutt’uno a prima vista scarno, farci fluttuare sopra la non-voce di Markus Archer come fosse la chiave di volta invece che un drammatico passo falso.
Alla stregua di tutte le grandi band che hanno avuto un “Neon Golden moment” e hanno saputo sopravvivergli senza doverne rendere conto al proprio pubblico per tutta la vita – i Notwist sfoggiano un modo del tutto personale di rendere le faccende semplici e anche Exit Strategy to Myself altro non è che l’ennesimo manifesto di un approccio alle cose, prima ancora che una composizione musicale. Sembra post-punk di campagna e invece è ultratecnologica nello scheletro. Ti chiama vicino, ma a distanza di sicurezza. Parla da sola, per raccontarti la sua storia. Dura troppo poco, finisce male e dice più di quel che vorrebbe.
Le frotte di smanettatori del laptop attenti alla melodia che sono spuntate negli ultimi decenni dovrebbero sezionarla in laboratorio come una rana, prendere appunti e portare a casa. Ci sarebbe tanto da imparare.