Stigmatizzare la sofferenza, mica facile.
La metabolizzazione della perdita attraverso l’espressione del dolore più nero. La messa in musica delle proprie fragilità come gesto catartico che svuoti l’anima e i nervi, prosciughi le lacrime e chiuda le cicatrici. Un altare del sacrificio sopra il quale sdraiarsi al cospetto della sofferenza più profonda, sentimento che spesso viene sfuggito ma che esige rispetto in quanto manifestazione ultima dell’essere vivi dentro.
Questo è il nocciolo di Tether, debutto solista di Nicole Marxen, già voce e tastiere degli splendidi Midnight Opera (e con un trascorso nei misconosciuti – ma non per questo meno piacevoli – Mount Righteous), affiancata in studio da Alex Bhore (dei letali This Will Destroy You).
Quasi quattro minuti dove su una base elettrodark pachidermica e asfissiante la Nostra canta il senso di vulnerabilità e lo smarrimento provato in seguito alla dipartita della madre, avvenuta pochi anni fa. Il risultato è allo stesso modo doloroso e sconvolgente, un requiem (per qualcuno? Per una parte di sé stessi?) sofferto e difficile, ma che sembra essere l’unico modo per tornare poi a vivere.
Un grido che è tributo e nel suo essere doloroso si trasforma in un inno all’esistenza nella coscienza che «Niente è cambiato, e tuttavia tutto esiste in un’altra maniera» (Jean-Paul Sartre).