Post-tutto, prima di voi.
Le etichette aiutano, si sa. Semplificano, categorizzano, impacchettano, mettono paletti ben definiti, inquadrano le cose e fanno sì che possiamo paragonarle, associarle, in qualche modo ritrovarle. Confortano, le etichette. Per questo sono pericolosissime. Perché rilassano le difese e anestetizzano l’attenzione. Se si sovrappongono, poi fai fatica a staccarle. Se lasciano troppo spazio scoperto, hai l’impressione di non aver completato il lavoro. Se si allineano perfettamente, ti soffocano con quel senso di claustrofobia che ammazza la speranza – molto naive, ok, ma quale speranza non vive principalmente di beata ingenuità? – di trovare, prima o poi, qualcosa di nuovo.
Di tutte le etichette, “post” è la peggiore. Si attacca a tutto manco fosse una sanguisuga (o dovremmo dire un post-it?), come il nero con tutto sta bene e certe volte pure smagrisce. Più che altro, funziona da dio quando non sai che pesci pigliare e allora l’appiccichi a un’altra etichetta poco convincente oppure ormai abusata, per confezionare una scappatoia last minute fatta di etichettature esponenziali che però – come il pesce, appunto – già puzza in partenza di paraculaggine livello pro.
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Trna: Istok
I God Is an Astronaut, nella melma del “post” ci sguazzano da più di vent’anni, e oggi ce l’hanno incrostata addosso al pari di un labrador che a questo punto hai paura a far rientrare in casa perché non sai che fine potrebbe fare il divano. Un po’ per natura, visto che quando si parla di musica strumentale, storicamente, i “post” iniziano a venire giù come le rane di Magnolia. Un po’ perché sul serio con loro i pesci da pigliare si perdono nel mare magnum dell’imbarazzo della scelta, pur in una nicchia di genere che dovrebbe avere connotati regolamentati quasi per contratto. E invece.
Se c’è una terra di nessuno tra post-rock e post-metal, stanno lì. Eterei e monolitici, maestosi e atmosferici, malinconici, diretti, all’occasione vagamente sinistri – perché non vorremo mica far rimanere a bocca asciutta chi ha coniato il termine post-doom, vero? Eppure, raramente gonfi del languore che ha reso famosi Explosions in the Sky e This Will Destroy You, mai si sono abbandonati alla costruzione piramidale di imponenti opere orchestrali di un quarto d’ora minimo come i Godspeed You, Black Emperor! o i Silver Mt. Zion. Magari, certi giorni, sembravano assomigliare piuttosto a gente come i Maybeshewill o i 65daysofstatic: anche se quelli scandagliavano più volentieri territori maggiormente glitchy ed elettronici, l’urgenza e l’impulso cinetico erano gli stessi.
Oggi, con questa Adrift e tutto Ghost Tapes #10 (decimo volume di una serie di cui non esistono i primi nove – giusto così, per annebbiare ancor di più il contesto), aggiungono alla ricetta qualche chilo di ferocia, andando a strizzare l’occhio a brutti ceffi tipo Rosetta o Cult of Luna e accelerando i bpm verso numeretti inusuali per i loro standard. Il resto è melanconica bellezza cosmica mista a terremoto e tragedia, con quella parte centrale di Pelican-esca memoria, in cui il tempo cambia senza preavviso come d’autunno, e chitarre pesanti a fare paio e contrasto con arpeggi intrecciati a sussurri di piano che sanno benissimo dove stanno di casa le tue sacche lacrimali.
C’è un senso di angoscia strisciante e impellente, accanto all’impressione di avere tutto il tempo necessario per risolverlo. Come sia possibile, non ci è dato sapere.