A proprio agio nel farsi strada tra melma infettivora del nuovo death metal.
Non è facile spiegare in quale direzione stia andando il death metal, ormai. Abbiamo assistito negli ultimi dieci anni, a un profluvio di giovanissime band che riconoscevano come unico scopo espressivo, il divenire il perfetto copycat di qualche vecchio massacratore sonoro del passato. E in genere, in qualsiasi forma d’arte, quando un nuovo artista non aspira a superare chi l’ha preceduto, ma preferisce traspirare ombra al suo cospetto, ecco apprestarsi la fine.
I Dipygus non hanno un suono nuovo, non inseriscono nei loro brani degli effetti psichedelici o delle melodie liricheggianti, cercano solo di infilare nel bolo carnario di un genere per molti alla canna del gas un bel pugno di vermi che lo mandino definitivamente a male. La boriosa Clarisa – frontgirl che sa di rancido solo a guardarla in foto – farcisce di gialloni bronchiali la rantolerìa chitarristica, mentre il batterista passa l’intera matassa di sangue e pelo in un tritarifiuti alla doppia cassa.
Detta in breve, questi hanno capito che musicalmente non è possibile fare peggio di quello che troppi altri hanno cercato di fare in passato. Il muro del caos è sempre quello e vi sono spalmati i legamenti di Mick Harris e le tonsille di Glenn Benton. Ciò che ancora si può sperimentare è tutto nei testi, l’estetica e soprattutto lo sfondo sonoro.
L’ambiente che racchiude le masticazioni sinfo-intestinali dei Dipygus è algido e minaccioso, come l’impianto d’areazione di Nyarlathotep, che potete percepire abbastanza distintamente in certe nuove notti metropolitane rese tacite dalle restrizioni del COVID.