La calma al centro dell’uragano.
Noi vecchi bacucchi ce la ricordiamo con i Gathering, e il solo pensiero ancora oggi ci sollazza le orecchie ammaccate (anche per causa sua) e i pochi ormoni rimasti (soprattutto per causa sua). Ma nel frattempo, Anneke van Giersbergen ne ha fatta di strada. Anzi, ne ha prese più di una, spesso contorte, a volte controverse e incomprensibili. Sempre per scelta, stando alle sue regole, guardando avanti senza particolari ambizioni di successo se non andare ogni volta in una direzione diversa, esplorando stili disparati con la stessa frequenza con cui cambiava colore di capelli. Ha iniziato con il metal anche se qualcuno lo chiamava prog, è sconfinata nel folk che sembrava pop col nome di un profumo extra lusso, registrato dischi solisti in cui faceva – appunto – il cazzo che le pareva e prestato la sua voce alla qualunque, perché un dono del genere tenerlo solo per sé sarebbe stato un peccato mortale.
Oggi è una donna fatta e finita, lontana anni luce da quella ragazzina dalle guance arrossate a cui la metà meno fighetta delle nostre compagne di classe tentava di assomigliare durante i concerti improvvisati in aula magna nei giorni dell’okkupazione, invecchiata meravigliosamente come le nostre compagne di classe non hanno saputo fare, al punto che ancora potrebbe suscitare l’invidia di tutto l’esercito di suicide girls sbocciate nel mentre e poi sfinite dopo aver resistito quanto una manciata di trasferelli.
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Qualche ruga e un po’ di tatuaggi in più, fascino e carisma da vendere, un’ugola immacolata e un sorriso sornione che la dice lunga su quanto (non) si prenda sul serio, si è caricata sulle spalle la propria pandemia privata e l’ha rivoltata a modo suo. Ridotta la pomposità magniloquente di un tempo ai minimi termini per adattarla a giorni come questi, si è chiusa in una baita isolata ai confini di una qualche foresta olandese e ha composto un disco intero giusto con una chitarra acustica in croce. Poi ha chiamato l’amico e produttore Gijs Coolen che ci ha aggiunto archi, fiati e percussioni. Ne è uscita una prova di intimità one-to-one che non rinuncia al ritmo, come dimostra, ad esempio, questa Hurricane, che incede su un tema a tratti western, retto per intero da un drum kit fatto quasi esclusivamente di tamburi.
Nel video, Anneke inizia cinguettando da sola in un salotto arredato in stile anni ‘70, come nella parodia di una televendita post-Happy Days, per finire a ballare in un seminterrato (poco) illuminato da qualche lampadina vintage. Lei, raggiante e fuori tempo, sembra segua i battiti di un’altra canzone. Il batterista sta in piedi nemmeno avesse le emorroidi, e sfoggia un cappello da vecchio. A un certo punto entra in scena un tizio con la tromba e – come sempre quando fa il suo ingresso una tromba – l’impressione è che ci stia come il cavolo a merenda. È tutto surreale e sbilenco, ma questo è il gioco del momento che stiamo vivendo. Eppure, musicalmente parlando, si rivela esercizio di una raffinatezza che spiazza e consola.