Gli struggimenti di ogni viaggiatore, in una bellissima ballata con un piede in Irlanda e uno in America.
Questa storia inizia nell’estate del 2018, a Galway, Repubblica d’Irlanda. Un tizio sta girando per la colorata cittadina universitaria, ricca di storia e di pioggia. Entra in un negozio di dischi, viene incuriosito da una copertina che non ha mai visto: c’è uno con una maschera cornuta, dal sapore pagano. La foto è in bianco e nero, il che la rende anche più conturbante, ma il nostro eroe ne è attratto. Legge il nome e il titolo: Mick Flannery, I Own You.
Il tizio ero chiaramente io, e non sapevo che avrei scoperto una delle più belle voci mai ascoltate negli ultimi anni. Una specie di Tom Waits irlandese, meno istrionico e più lirico e malinconico, spesso curvo sul pianoforte, e con una penna davvero niente male.
Mick ha evidentemente qualche poetico conto in sospeso con l’America, che condivide con il suo popolo e con il nostro, entrambi con importanti storie di emigrazione negli States, e ritorno. Altrimenti non si spiega come faccia a scrivere ballate come Boston, o come questa bellissima Minnesota, la cui resa vocale lascia perlopiù alla cantante folk Anaïs Mitchell. Che è americana, e così la connessione inter-oceanica è completa.
In questo rimbalzo da una sponda all’altra dell’Atlantico – i cui venti sul lungomare di Galway sono tanto violenti quanto è calma e polverosa la brezza delle due splendide voci che la cantano – ci viene raccontato, da un punto di vista femminile, com’è sentirsi figli di una nazione, e caricarla di speranze e aspettative. E al di là degli aspetti strettamente geografici, ci si respira una malinconia universale, struggente, quasi la nostalgia di cose mai vissute che qualsiasi viaggiatore – anche quelli che vivono in quest’epoca frammentata, sovrappopolata, ipercollegata e piena di straniamento e casualità divorante – deve aver vissuto almeno una volta.