Dalla Grecia all’Oceania, e ritorno.
Esistono pochi musicisti che non hanno mai pubblicato nulla di brutto, imbarazzante o superfluo. Di quelli che hanno prodotto solo capolavori e al massimo si concedevano episodi leggermente sottotono. Questi ultimi vengono solitamente massacrati da critica e parte del pubblico, quasi in maniera sadica. La cosa fa sorridere, perché è come quando il primo della classe prendeva un 9 invece che un 10: i primi a puntare il dito erano quelli che quando arrivavano al 6 accendevano un cero alla Madonna.
Nel club dei meritatamente intoccabili un posto d’onore spetta a Brendan Perry, che a sorpresa se ne esce con un nuovo disco solista con radici antichissime sotto diversi aspetti. Il suo rapporto con il retroterra musicale ellenico nasce già in Australia, quando frequentava bar popolati da immigrati greci alimentati da ouzo che suonavano e cantavano brani della tradizione popolare accompagnandosi con strumenti tipici.
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Questo imprinting sonoro ha accompagnato Brendan per tutta la sua carriera: oggi, arrivato a un punto dove non deve più dimostrare nulla a nessuno se non a se stesso, il nostro decide di reinterpretare alcuni dei brani a cui è più legato vestendoli della sua innata classe. Le riletture di Perry sono come sempre incredibili, curate nei minimi dettagli ed è un piacere per i sensi cercare di decifrare gli strumenti utilizzati nei brani mentre le stratificazioni sonore confondono la razionalità e ammaliano lo spirito, lasciando l’ascoltatore in estasi completamente rapito dal ritmo e dalla sempre splendida voce baritonale della metà dei Dead Can Dance.
La scelta di tradurre in inglese questi brani è inedita e rende meno ostica la comprensione dei testi che, come è facilmente immaginabile, trattano di tutto quello per cui valga la pena vivere: socialità, alcool, buon cibo e belle donne. E va benissimo così.