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Mogwai: Dry Fantasy
Vi presentiamo due nuovi membri del gruppo.

Ogni pezzo dei Mogwai è il miglior pezzo dei Mogwai.

Mai come adesso c’è bisogno di canzoni che ci prendano per mano per portarci altrove. Dovunque sia altrove. Di qualunque altrove si stia parlando, a patto che non sia qui e ora. Ovvio, a meno che – come non manca di precisare Stuart Braithwaite, con lo scottish humor che per natura lo contraddistingue – non siate già in un posto meraviglioso, e allora «perché cazzo state qua ad ascoltare roba strana come questa?».

Negli ultimi dieci anni, attorno ai Mogwai son ronzate ripetutamente le stesse, filosofiche questioni: riusciranno ad andare oltre un genere che hanno contribuito a creare (il cosiddetto guitarmageddon dei primi dischi)? E se sì, lo faranno contribuendo alla causa con qualcosa di genuinamente interessante? La risposta a entrambe le domande è un monolitico “chissenefrega”. Cioè – tecnicamente parlando e col senno di poi – la risposta a entrambe le domande è un granitico “sì”, ma il concetto è che – soprattutto per una band con venticinque anni di carriera sul groppone, soprattutto per una band associata a un sound così particolare, che ha più emulatori che muse ispiratrici – il vero interrogativo dovrebbe andare a indagare non tanto cosa si suona, ma come lo si suona. 

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Ecco, in qualunque pezzo dei Mogwai non mancherà mai di (ri)suonare la stessa convinzione impertinente che troviamo in ogni altro pezzo dei Mogwai, la stessa sfacciata, cruda, sincera claustrofobia di un volume magistralmente compresso per anni in spazi strettissimi, la stessa inguaribile necessità di prendere la cosa estremamente sul serio, come fosse una questione di vita o di morte. Non importa quanta distorsione o quante fregnacce sintetiche ci mettano dentro, se il muro di suono con cui ti colpiscono è di cemento armato o di gomma piuma, se la loro palette di colori ha visto aggiungersi sfumature diverse, se la religione delle suite strumentali nel frattempo ha sdoganato eccezioni che confermano la regola o la ribaltano piacevolmente.

Perché le canzoni dei Mogwai sono così, fatte apposta per restare attaccate a un’immagine, a un tarlo, a un ricordo, e quando le riavvolgi fanno male come un dolore intercostale che ti prende alla sprovvista o come quel risentimento muscolare alla schiena che ti eri dimenticato di avere, a patto di non piegarti mai in un certo modo. È di questo che stiamo parlando: le canzoni più belle dei Mogwai ti piegano in un certo modo, esattamente in quel maledetto modo.

Lo farà anche questa. Riascoltatela tra un’ora, domani, il prossimo anno: datele tempo. Se poi invece siete di quelli che il tempo è denaro e quindi non è mai abbastanza se non per essere lasciato inerme a morire protetto nel vostro salvadanaio, davvero – perché cazzo siete qui ad ascoltare roba come questa?

Mogwai 

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