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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Martin Gore: Mandrill
Vedi a fare i denti in Bulgaria?

Depeche chi?

La croce e delizia di essere (rimasto) il fulcro vitale dei Depeche Mode pesa sulle spalle di Martin Gore da molti anni ormai. Il suo matrimonio artistico con Alan Wilder ha regalato al pubblico alcune delle perle sonore più belle della storia della musica elettronica, emozionando il cuore – le sempre splendide e memorabili melodie dell’uno – e il cervello – la ricerca sonora certosina dell’altro.

Dopo la dipartita di quest’ultimo la band fronteggiata da quell’istrione di Dave Gahan (che difficilmente però scrive qualcosa) non è stata avara di capolavori, ma è innegabile come il dover sempre e comunque puntare al pezzo di successo da un certo punto in poi (leggi “da Exciter) abbia fatto perdere un po’ di smalto agli album, non tanto per i brani in sé quanto per la cura del dettaglio sonoro. Bei dischi, ma che non facevano rizzare i peli sulla schiena. Ci voleva una pausa, insomma.

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Così, su questi quattro minuti, sembra quasi che aleggino lo spettro di Dirk Ivens con i suoi Dive, ed è un bene, sia chiaro. Perché è pura poesia uditiva questa Mandrill, che vede il biondo riccioluto in un nuovo stato di grazia: un pezzo strumentale che morde alla giugulare con precisione chirurgica tanto è affilato e sornione. Tutto quello che ci è mancato negli ultimi anni dai dischi della band madre è qui: il coraggio e la sfacciataggine di rimettersi in gioco, sperimentando, senza paura di dover dimostrare nulla a nessuno.

Il talento innato e immutato di Martin è finalmente libero di lasciarsi andare senza i bendaggi delle aspettative dei grandi stadi: proprio per questo Mandrill è la cosa migliore uscita dalle sue dita negli ultimi 20 anni. Perché è dannatamente sexy, calda, letale, oppressiva, nera, densa, la si ascolta una volta e non basta mai. Ci avesse cantato sopra qualsiasi cosa Gahan, sarebbe bastata da sola per polverizzare 20 anni di Depeche Mode.

Un pezzo che è la dimostrazione di come quest’uomo abbia ancora dei capolavori nascosti dentro di sé: in fondo rimane un animale industrial che ha saputo adattare le sue due facciate (quella electro e quella pop) per sfondare nel mainstream. Gli è andata alla grande e ci è entrato: ora è anche nella Rock and Roll Hall of Fame, no? Missione compiuta: i tempi sono dunque maturi per tornare a far musica per sé stupendo gli ascoltatori. Se questo è il primo passo per una nuova fase, la vecchiaia di Gore ci regalerà delle gemme che potrebbero rivelarsi il punto più alto della sua carriera.

Martin Gore Depeche Mode Dave Gahan 

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