Ogni trucco è buono se ti fa sentire a casa.
Se sei un isolano sperduto tra i ghiacci con in testa l’idea di sfondare nell’universo dei dancefloor più o meno commerciali, l’unica strada è quella di fare le valigie: mutande, calzini, tutto il tuo entusiasmo e – ben nascosto in fondo – un chilo di nostalgia da portarsi sempre appresso.
In venticinque anni di carriera, i GusGus hanno collezionato più etichette discografiche che Donald Trump accuse di molestie sessuali. Sempre e rigorosamente con lo spirito da bastian contrari che si sentono fuori posto e la cocciuta rassegnazione con cui si possono sentire fuori posto degli islandesi in qualunque posto che non sia l’Islanda. Hanno esplorato i territori del chillout e della trance anche se la Moonshine avrebbe preferito sentire i soliti pop hook cibernetici. Sono stati in 4AD quando la 4AD era una scura roccaforte dark & grim (almeno a livello visuale), ma hanno aspettato di passare alla Kompakt prima di comporre il loro album più glaciale. Cose così. Normale che oggi, sentirsi a casa, in questo senso, significhi mandare tutti in culo e fondare la propria label.
Nei soliti venticinque anni di carriera i GusGus hanno visto transitare nelle loro stanze più gente che mariti Elizabeth Taylor. Il loro vago e allargato concetto di “squadra che vince (non) si cambia” si è sempre ridotto a un unico vincolo: che i nuovi partecipanti al collettivo fossero registrati all’anagrafe di Reykjavík. Sempre per sentirsi a casa, s’intende. Birgir Þórarinsson è l’unica variabile costante di questa storia, Daníel Ágúst Haraldsson il suo fido compare (se si esclude una scappatella di inizio millennio). Normale che oggi, per non smettere di sentirsi a casa, la scelta cada sulla conterranea Margrét Rán, presa in prestito (o forse proprio rubata definitivamente) ai conterranei VÖK.
Sarà che così la genetica ha più modo di vincere facile, ma di nuovo la combinazione è del tutto azzeccata. Higher prova a disinibire i Kraftwerk sguinzagliandoli dentro un rave fatto su misura per loro (ovvero scrupolosamente codificato nell’euforia e nelle coreografie), ci mette quanto basta dello zucchero synth pop della migliore La Roux e soprattutto regge tutta la baracca su quella cosa che – da venticinque anni ormai – a questa gente viene meglio.
Gli esperti la chiamerebbero “cassa dritta”. Ma non è solo quello. C’è anche un’altra roba strisciante, difficilmente sintetizzabile a parole, se non prendendole in prestito dalla vox populi del paese reale, ovvero direttamente dalla bocca di uno dei più famosi personaggi di Maurizio Blatto: «giusto una fitta sottile di bassline, tra la panza e li cujuna».