Prendere un pezzo vecchio di un secolo e portarlo nel futuro.
Quando si ascolta Sam Amidon serve uno sforzo di decodifica per scorgervi la tradizione americana. Parti di testo, tipiche formule ricorrenti e richiami vengono sparsi qua e là, come nel rarefatto Bright Sunny South. Uno Sherlock Holmes dell’avant-folk si divertirebbe a scovare indizi, a tracciarli e risalire alla fonte a cui Amidon ha attinto, trasformandola alchemicamente fino a farla diventare qualcosa di diverso, al confine con il jazz e le trance ipnotiche, con comunque un solido nerbo acustico.
Anche il nuovo album omonimo, che l’autore definisce come il lavoro che finora esprime meglio la sua visione, sarà di puri traditional. Si fa per dire, visto che anche in questo caso il folklore non è mai puro, al massimo si cristallizza in certi nodi. Quello che Amidon fa è entrare in questi nodi, prenderli e aprirli delicatamente con la sua voce soffusa e un po’ rauca finché non restano spalancati, sventrati, dipinti con una massa di colori alieni come nel video minimalista del singolo, Maggie.
Tra gli inserti elettronici e i groove funky di cui con sua la band ha deciso di vestirle, le immagini di una ragazza desiderata che beve con altri uomini e balla al suono del banjo, diventano fotogrammi psichedelici, iperrealisti. Cambiano dimensione, come se la canzone tradizionale per Amidon fosse una specie di macchina steampunk dalle cento leve. La magia risiede nel fatto che, nonostante l’elemento acustico sia stato abbattuto come una vecchia torre già dall’ultimo album, c’è qualcosa sotto che tiene un piede nel passato, un’eco che accompagna tutta la traccia mentre questa scorre come il Mississippi in piena.
Benvenuti nella fantascienza del folk.