Combattere il sistema a botte di canditi e orsacchiotti pucciosi.
Il capello ossigenato c’è, i tatuaggi e i piercing pure. Per il resto, non siamo propriamente di fronte a una band che punta forte sulla silhouette da fotomodello tossico, ma guardiamoci negli occhi: il punk è uno stato mentale, mica una gara delle apparenze – uno stile di vita, mica la spilla da balia su un vestito strappato. Ok, Malcolm McLaren non sarebbe stato d’accordo. Vivienne Westwood sarebbe appena scoppiata a ridere. Allora diciamo che qui stiamo parlando di un esperimento iconoclasta applicato alle icone dell’iconoclastia: qualcosa del tipo kill the idols that killed your idols. Sono sicuro che nel ‘77 in non pochi avrebbero apprezzato.
Rex Beckett gioca con le parole, le epoche, i generi musicali, i canoni (non) standardizzati di bellezza, i nomi e i cuori incrociati. Per questo ne esce una roba che – inevitabilmente, a modo suo – più punk non si può. Un grido dolce e tenero – ma allo stesso tempo drammatico e radicale – di autodeterminazione e riscoperta di sé. Estrema, vulnerabile, si porta appresso una crudezza terminale, come se ti servisse sul piatto il suo cuore ancora caldo, in attesa che tu lo ascolti battere. Solo che di contorno ci sono marshmallow, frutta candita e tutto un baccanale morbido e velato di pucciosità in toni pastello, al servizio di una Bonnie Tyler orgogliosamente curvy, autoironica e con un costante accenno di sorriso sulle labbra.
E in effetti Don’t Be Afraid of My Heart potrebbe ricordare, sotto certi punti di vista, proprio la versione di Total Eclipse of the Heart in salsa islandese: soffusa, meno ansiogena e senza riferimenti sottintesi a vampiri e vampirismi, ma non per questo meno accattivante. Perché Rex Pistols è comunque un profondo atto di edonismo: groove synthpop minimali, persi dentro un certo blues-goth caricato di lussuria, paura, noia e decadenza. Ostentatamente fragile, apparentemente oscena. Forse entrambe le cose, forse nessuna delle due.