Restituire al rap la sua anima old school e alle persone la propria voce.
Con album dai titoli profetici come Fear of a Black Planet (1990) e The Evil Empire of Everything (2012) la seminale crew newyorkese ha attraversato imperterrita trentacinque anni di storia americana assistendo non solo alla mutazione genetica dell’elettorato dal secondo mandato Reagan a Trump, ma anche del rap stesso, che è passato da essere un idioma di strada pregno di coscienza sociopolitica a un mero linguaggio pubblicitario per prodotti da classifica patinati.
L’American dream della scalata sociale con la quale il rapper diventa il self-made man che ce l’ha fatta non fa che inasprire il divario tra il drop-in e il drop-out, divario che l’hip hop conscious ha sempre cercato di mitigare proponendo un modello diverso dal bitches & pimp e alzando il livello di consapevolezza.
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Risultato? Un gran casino. Il re Mida del gangsta rap Dr. Dre non vive a Compton, ma in un villone a Brentwood, la diatriba West Coast vs. East Coast è finita in un mare di sangue e personaggi illustri quali Jay-Z e Kanye West con rispettive consorti sono assurti al ruolo di novelle Royal Family.
Ecco che allora Chuck D, Flavor Flav e soci escono con What You Gonna Do When The Grid Goes Down, un album che è una critica mordace alla realtà distopica e divisiva creata dai social media (grid per l’appunto) e, nel contempo, una lettera d’amore aperta all’hip hop old school e alla sua attitudine, di cui la loro etichetta Def Jam fu protagonista.
Dal pestaggio di Rodney King avvenuto il 3 marzo 1991 all’uccisione di George Floyd il tempo pare essersi fermato malgrado la presidenza Obama, e il motto Black Lives Matter risuona oggi come una bella etichetta tipo quella delle Adidas, da appiccicare addosso all’ennesimo prodotto confezionato. I Public Enemy ridanno fiato proprio a quel «I can’t breathe» strozzato di Floyd, ridestando la voce di chi l’ha persa, e per farlo coagulano i migliori nomi della storia della musica nera tra cui (in questo brano) i Cypress Hill e il re del funky George Clinton.
Cosa saremmo tutti quanti se internet si bloccasse? Forse torneremmo per le strade a ballare, cantare, amarci e combattere veramente per un mondo più giusto. Con distanziamento sociale (per ora), ma non delegando a un algoritmo la difficile e meravigliosa responsabilità delle nostre esistenze.