Lasciarsi andare, come un sospiro di sollievo.
Un disco dei Fleet Foxes è un posto in cui rifugiarsi quando le cose non vanno come sperato, specie perché la musica scritta da Robin Pecknold – fresca e nostalgica insieme – serve a lui per primo come nido dove far riposare le inquietudini.
Cosa che non ci manca, nella cosiddetta “nuova normalità”, sia per la pandemia in sé e le sue conseguenze pratiche, che per il modo in cui queste fanno effetto domino sull’emotività di ciascuno di noi, in modo diverso a seconda di carattere, momento della vita, classe sociale e tutto il resto, ma spesso non meno devastante.
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Uscito come una bella sorpresa sotto l’equinozio d’autunno, Shore è in realtà l’ennesimo lavoro posticipato a causa del virus, e forse sarebbe stato un parto difficile anche senza il COVID-19, come lo è stato il precedente Crack-Up. Ma ne è valsa la pena.
La title-track, che poi è l’ultimo pezzo del disco, può fare da sponda per ancorarsi e rifiatare, oppure per partire alla scoperta di questi paesaggi ventosi, ogni volta più colorati dall’estro dei numerosi ospiti e dalla cresciuta raffinatezza del songwriting di Pecknold, sempre legato alle armonie vocali che costruisce in gran parte da solo ma meno dipendente dalle classiche chitarre folk-rock di Helplessness Blues, aperto ad atmosfere più ampie, scenografiche, rilassate, imperniate su percussioni, fiati e pianoforte. Un posto tranquillo, anche se spazzato dalle correnti e lambito dalle maree, in cui la natura ci parla come lo faceva ai poeti del Novecento, dove nel ritmo dei passi si può ritrovare un universo indifferente, al di sopra di tutto, con lui che fa da tramite, sciamano e guaritore.
C’è da fidarsi e lasciarsi andare, sperando che l’inverno ci porti più posti caldi e sicuri come questo.