Danzando sopra la malinconia e l’infinita tristezza.
Due cose vengono bene a Billy Corgan: il rock grungettone da palazzetto e il flirtare pesantemente con la new-wave. In molti storsero il naso quando uscì quel capolavoro totale di Adore, che invece di ricopiare la formula che aveva fatto la fortuna del precedente Mellon Collie and the Infinite Sadness, sterzava a testa bassa in direzione ‘80.
«Un album più Cure dei Cure» lo definì il nostro Zio Fester all’epoca, e in qualche modo aveva ragione. Machina 1 e 2 (quest’ultimo regalato tramite il suo sito web per problemi con la label) erano un bel modo di continuare quella strada, ma da lì in poi la boccia pelata di Billy è andata un pochino in palla e tra litigi, scioglimenti, progetti discutibili, reunion e collaborazioni non sempre riuscite.
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Torna oggi, dimenticandosi di voler essere Roger Waters alle prese con qualche opera quadrupla e facendo una delle cose che meglio gli riesce.Cyr è un bel pezzo che si veste completamente di synthpop, con un groove dritto in faccia e una scelta dei suoni che farebbe annuire Martin Gore. Questo è il Corgan che più si fa amare, quello che fa ciò che vuole senza farsi inghiottire dal suo stesso personaggio.
Certo, la presenza delle altre zucche qui latita un poco e a voler fare le pulci si potrebbe dire che il brano, nella sua ruffiana orecchiabilità, sembra essere privo di un vero e proprio refrain da manuale, arte nel quale il Nostro era maestro. A parte questo, Cyr si fa apprezzare parecchio e va decisamente oltre le aspettative. Nel 2020, onestamente, a William non si può chiedere di più.