Più malato della peste. Eppure necessario.
«È già stato fatto tutto. È già stato detto tutto. È già stato suonato tutto. È già stato sperimentato tutto.» Quante volte abbiamo sentito (e ci siamo trovati d’accordo) con queste affermazioni drastiche? E allora cosa può fare la differenza ormai?
Molto semplicemente: il come.
Perché quando novantasei secondi netti ti fanno rizzare le orecchie e i peli sulla schiena significa che il ragazzo la sua cosa la sta facendo bene. In maniera politicamente scorretta, ma bene.
Nascar Aloe non è un novellino, ma nemmeno un vecchio matusa e – quindi, appunto – sa cosa fare e come farlo. Dalla Carolina del Nord sputa bile e rabbia in uno schizzo che, prendendo come base il rap più truce e l’hip-hop meno sculettabile, affoga l’ascoltatore dietro bordate di elettronica con una base spaccatutto e un’attitudine che fa annuire dall’aldilà Keith Flint. La stessa attitudine che manca a buona parte dei suoi colleghi finto ribelli e alla moda, polverizzati da questo less is more totale che sbaraglia senza guardarsi intorno qualsiasi cosa si trovi sulla sua strada. Un testo violento e scorretto vomitato con una rabbia degna di un Hetfield anni Ottanta in cui, in assenza di grandi ideali, troviamo nevrotiche descrizioni vividamente approssimative di un disagio quotidiano, calato in un’apatia spersonalizzante che è fonte stessa di rabbia.
Le nuove generazioni si sono ammorbidite solo in superficie, i nemici da combattere ora i ragazzi se li portano dentro. Parte di quel disagio è qui: ignorarlo o liquidare il tutto come “già fatto, già sentito” non farebbe altro che aumentare il divario silente dell’incomunicabilità tra generazioni. Se non si brucia, il ventunenne di origini cambogiane potrebbe diventare un nuovo punto di riferimento. Letale.