Ritorno al marciume DIY del goth dei tempi andati.
Ci sono un milione di modi diversi per approcciarsi a una canzone, che dipendono da altrettanti fattori personali. La difficoltà reale sta nel cercare di rimanere obiettivi quando si deve giudicare o meno un pezzo.
I Lebanon Hanover negli ultimi anni hanno riscosso un discreto successo nell’underground goth, e ascoltando superficialmente il nuovo singolo ci si potrebbe chiedere il perché. Registrazione talmente lo-fi da far sembrare i Neva una band prodotta da Bob Rock, esecuzione approssimativa che manco nei promo sgangherati black metal dei primi ‘90, voce monocorde su riff quasi banali che sono il cliché dei cliché. Insomma, sulla carta il duo anglo-elvetico sarebbe un fallimento totale.
Eppure no. Il fascino del nuovo singolo, per esempio, sta proprio in questo DIY estremo, nel rifiuto totale di qualsivoglia soluzione “pulita”, nell’affermazione dell’istinto primordiale che vince sopra la professionalità, nella sfacciataggine che li spinge a pubblicare brani che per la maggior parte delle band sarebbero al massimo dei demo da tenere nascosti in qualche cartella criptata sul computer. Ecco allora che sembra di essere tornati indietro di vent’anni, con mp3.com come punto di riferimento e MySpace che era ancora un lontano miraggio, quando ci si sentiva ancora dei pionieri a godere di suoni provenienti da gruppetti oscuri intenti a comporre nei loro garage o camerette.
Ben venga dunque Digital Ocean, sferzata goth acida e tignosa con tanto di videoclip girato male e montato peggio: in un’epoca dove tutto è perfettino e leccato riuscire a godere dei difetti rimette in pace il nostro essere analogici in un mondo ormai digitalizzato a 360 gradi. Che poi in breve tutto questo andrà dimenticato, è un altro discorso.