Il lato più horror del post-punk vittoriano.
È successo a tutti, almeno una volta nella vita – svegliarsi stonatissimi e doloranti su una delle panchine del parco sotto casa e trovarsi a dover scappare di fronte ai propri demoni, per scoprire che alla fine della fiera altro non hanno che le nostre identiche fattezze.
Archy Marshall, la lotta contro le sue personali ansie di ragazzino disagiato e rosso malpelo, la porta avanti sin dai tempi dell’infanzia, ma se fino a oggi aveva provato a metterla in musica cercando di suonare il più bizzarro possibile, con il nuovo Man Alive! sembra voler tentare di raccontare le cose in maniera vagamente più accessibile. Così l’inferno sonoro che aveva caratterizzato The OOZ (e che, a suo modo, ne era il punto di forza), in cui una sorta di stream of consciousness diventava narrativa musicale, prende qui la forma di un qualcosa che appare più familiare, seppur sempre imparanoiato nel profondo.
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Comet Face è la cosa più post-punk che potesse concepire la mente storta di King Krule. Un post-punk così retrofuturista che meriterebbe di essere chiamato post-steampunk. Si regge su un giro traballante che pare suonato con un contrabbasso sul ponte di un brigantino nel bel mezzo di una tempesta degna del Triangolo delle Bermuda, le chitarre fanno le veci del sound designer di un horror di serie B e a un certo punto arriva pure un sax a spaventarti con il suo urlo sfiatato.
C’è un mostro che terrorizza il quartiere e sangue finto in abbondanza, come in ogni videotape figlio di troppe ore passate a masticare George A. Romero. Finisce che la gente del posto non ci sta a farsi squartare viva senza vendere cara la pelle e allora il nostro (anti)eroe non può far niente più che soccombere, circondato da gente armata di forcone.
In altri termini, una sintesi impeccabile per la storia dell’indie-rock degli ultimi vent’anni. Vero, Pitchfork?