La rivincita della cazzarità cosmica, deliziosamente irresistibile.
Robert Smith dei Cure ha sempre avuto due lati: quello malinconico e quello burlone. Non solo nella sua band ma anche nella miriade di featuring sparsi negli anni: dalle reinterpretazioni laceranti con Placebo e Korn alle svisate danzerecce con Crystal Castles, il ragazzo immaginario non si è fatto mancare nulla. O quasi.
Questa collaborazione con i Gorillaz di Damon Albarn va a riempire una lacuna: il featuring cazzaro. E il remix a opera del Nostro (qui a voce, basso, chitarre e tastiere) è, volendo, ancora più adorabilmente folle rispetto alla versione originale. Già dall’introduzione (che cita palesemente The Caterpillar, uno dei brani pop più acidi – inteso come trip – dei Cure) si capisce che il mood del pezzo sarà distantissimo non solo dalle introspezioni alla Faith, ma anche dalle boiate tipo Mint Car. Qui è delirio puro, un pastiche sonoro che sarebbe stato benissimo in un ipotetico secondo album dei Glove trasportato nel nuovo millennio.
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I Cure e quei 17 secondi per diventare grandi
È un pezzo stupido. Sciocco. Danzerecciamente cheap. Idiota. Di quelli però che se al primo ascolto fanno ribrezzo e al secondo meh, al terzo non si può più resistere: «Spinnin’ around the world at night» si stampa nel cervello e non se ne esce più.
I Gorillaz restano dei furbacchioni geniali, e il vecchio Bob si conferma come uno degli ultimi anarchici: fa quello che vuole, si diverte e se ne frega di tutto quello che gli sta intorno, con buona pace di critici e detrattori. Intanto lui – conciato come Liz Taylor misto a Platinette – è comunque Robert Smith. Gli altri possono solo sperare che qualcuno li noti e si ricordi di loro. Dei giudizi altrui a lui non importava a 20 anni, figurarsi ora che ha superato i 60.