L’infinito (s)confinato nell’assenza di futuro odierna.
Ormai, agli orecchi svogliati che al giorno d’oggi fanno la media, i dischi che superano la mezz’oretta di minutaggio complessivo sembrano più o meno tutti uguali. Credo sia abbastanza normale: nel senso, se nel tempo di una canzone di Sfera Ebbasta questi non sono ancora riusciti a concludere l’intro, lo scollamento tra un generico approccio post-rock (o post-metal, come volete chiamarlo – parliamo in linea di principio di gente che se la prende comoda, anche se quasi mai in maniera confortevole) e la realtà delle cose è evidente e drammatico.
A volerci per forza leggere un po’ di poesia rétro, robe così suonano come uno degli ultimi baluardi reazionari (raccontati con un linguaggio volutamente ed emotivamente partigiano) all’avanzata della modernità. Ma il fatto è che credere ciecamente ai formalismi è la strada più diretta per esserne risucchiati e demonizzare i cliché a suo modo una stessa malata forma di cliché. Quindi largo ai luoghi comuni in tema di musica pesa e dilatata.
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D’altronde, i Crippled Black Phoenix non si sono mai posti il problema (che si sa, nella vita, è uno dei migliori modi per non cadere in tentazione) e a quanto pare non hanno intenzione di iniziare adesso. Ecco quindi che, dopo Cry of Love (quasi corta, per i loro standard), ci schiantano un nuovo singolo di oltre otto minuti, giusto per ingannare l’attesa dell’imminente Ellengæst.
Come al solito, ci sono il metal e il doom, ma opportunamente rarefatti in una visione pinkfloydiana, poi rimessi in sesto con tutta la pignoleria ossessiva dei Nine Inch Nails meno sintetici e a questo giro infine completati dall’ospitata di Vincent Cavanagh degli Anathema ai cori. A sentire il duetto con la sempre splendida Belinda Kordic – senza soffermarsi sul testo né sbirciare le immagini selezionate per il video da Guilherme Henriques – sembrerebbe quasi che per il genere umano ci possa essere una qualche forma di speranza. O se non altro un meno peggio in cui credere. E invece no.