Niente a che fare con le Black Panther, anche se sempre di grossi, affascinanti felini neri si tratta.
Il telefono senza fili del passaparola romanzato la racconta più o meno così: un poveraccio sta facendo la fame mentre chiede l’elemosina accasciato all’angolo di un marciapiede di Austin, quando arriva un tizio avvolto in un cappotto di visone, che lo invita a salire sulla sua limousine per andare a registrare qualche hit nel suo studio da svariati milioni di dollari.
La realtà delle cose – come spesso accade – è molto meno hollywoodiana di così. Ma quel che conta è il risultato, alla faccia dello storytelling. Adrian Quesada è un chitarrista flamenco che sa il fatto suo e con il suo gruppo di funk tex-mex ha pure vinto un Grammy come Best Latin Rock Album. Parlando di apici di comicità involontaria, potremmo già chiuderla qui. Ma andiamo avanti. Si innamora del soul relativamente tardi e scrive di getto una manciata di pezzi in cui lo mischia al buon vecchio cantautorato elettrico americano dei Seventies e a certi paesaggi sonori da lontano west alla Elmer Bernstein. C’è solo un problema: manca qualcuno che ci canti sopra. Eric Burton è un artista di strada con una voce che pare Marvin Gaye e Bobby Womack messi insieme, piuttosto noto in città – in altri termini, il cosiddetto perfect match. Nemmeno due anni dopo infatti ecco una band dal nome cazzuto e un album che ha fatto non poco parlare di sé, della cui imminente versione deluxe Red Rover è la bonus track inedita.
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I Black Pumas sono la risposta a chi si è chiesto come avrebbero suonato Sam Cooke o Neil Young se fossero entrati in pianta stabile nel Wu-Tang Clan. Una motown (de)attualizzata che prova a tenersi lontana da palesi manifesti politici per riuscire a risultare il più inclusiva possibile, in tempi divisivi come questi.
Certo, arrivarci quattro o cinque anni dopo gli Algiers vuol dire arrivare almeno secondi. E farlo con quasi nessuna dichiarata intenzione di militanza vuol dire perdere – per scelta – qualche chilo di fascino nella contemporaneità per provare a focalizzare l’attenzione interamente sulla musica. Ma il treno è comunque quello azzeccato: roba che va di moda, nella sua nicchia vende bene e – se fatta con cuore e talento come in questo caso – ha pure un suo valore culturale, sparata così, con aria innocente, nella mischia nei tumulti intrisi di nuova consapevolezza razziale che stanno scuotendo gli animi al momento.
Poi si sa, tra l’essere la band giusta al momento giusto e il ritrovarsi paraculi professionisti il confine è sottilissimo. Qui, per ora, siamo ancora dal lato buono – anche senza pugni alzati, ma con le parole adatte e le idee chiare.