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Sufjan Stevens: America
Il cantautore della porta accanto

Non farmi quello che hai fatto all’America. Una specie di preghiera.

«Don’t do to me what you did to America». Una dichiarazione forte, abbastanza esemplificativa da non aver bisogno di molto altro. Averla amata, venerata, adorata come un dio. La vecchia America, il suo ideale, il suo stendardo. E poi essersi abbandonato alla sua decadenza contemporanea.

Sarebbe già abbastanza, ma – se non bastasse – il nuovo brano di Sufjan Stevens si prende ben 12 minuti per sottolineare il concetto. America si prolunga su tonalità piuttosto simili per tutta la sua durata, senza particolari stravaganze dinamiche o strutturali, ma impostandosi su un flow lamentoso che ci accompagna dall’inizio alla fine.

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In pratica, il suo più grande difetto diventa il suo miglior pregio, riuscendo a convincere minuto dopo minuto, beat dopo beat, ripetizione dopo ripetizione. Una «protest song against the sickness of American culture in particular» (così come l’ha definita l’eclettico cantautore statunitense) che rende emblematico il nuovo The Ascension, in uscita il 25 settembre per Asthmatic Kitty.

Una coda conclusiva piuttosto nickcaviana (il riferimento è all’ultimo periodo, con Warren Ellis) gioca a favore di una composizione che, ancora una volta, fa affidamento sull’elettronica così come sul folk lo-fi. Un pezzo che sa di piacere a un pubblico hipster, lo lusinga con temi, suoni e un impatto che strizza l’occhio a un generico indie, e così riesce a essere comunque autoriale, innestandosi alla fine esattamente su quelle tonalità che fanno brillare gli occhi (e le orecchie) a quelli di Pitchfork. E tutto sommato anche a noi.

Sufjan Stevens 

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