Un Mike Scott sempre più vivo e in forma. Soprattutto, elettrico come non mai.
Mike Scott, il druido-Knulp scozzese, è più prolifico che mai. «The Waterboys c’est moi», potrebbe dire a ragion veduta il vecchio ragazzo, figlio di Dylan e di Yeats, con la sola eccezione del violinista Steve Wickham, che però a onor del vero non c’è stato proprio sempre.
E proprio a uno dei pochi dischi senza il fedele fiddler di Sligo sembra rifarsi questo pezzo nuovo di pacca, ovvero Dream Harder, album elettrico e intriso della solita vena spirituale, un po’ celtica un po’ sciamanica. Mike, dopo le prime prove di big music degli Ottanta e l’esplosione folk del celebrato Fisherman’s Blues, non è mai stato granché dentro le mode, giocando a fare l’eroe mitologico del rock, ma la sua vena letteraria è deliziosa e raffinata e se gli si offre un palco sarà sempre pronto a tirarlo giù con sanguigne e travolgenti manifestazioni di dèi pagani ed esorcismi voodoo.
L’andamento del pezzo richiama molto – forse un po’ troppo, ma è qualcosa che gli si perdona volentieri – un altro vecchio monologo su chitarre di Scott, The Return of Jimi Hendrix. Nick Cave, che pure si affaccia nei versi intricati di questa specie di bardo capellone, sosteneva di aver fatto «sempre la stessa merda [sic]» per tutta la carriera. Ma se la merda è di questo tenore – e di quello di Nick, ovviamente – chiamatemi coprofago.
Sempre a proposito di autocitazioni, un altro allucinato e lunghissimo inno, una ventina di anni fa, titolava My Love is My Rock in the Weary Land. Il Nostro, a colpi di erre arrotate e vocalizzi fuori dal comune senso del pudore, a forza di canalizzare versi di animali magici si è ricamato una mitologia tutta personale, andando sempre dritto, inquieto e in pace al tempo stesso, e pare totalmente deciso a continuare così. Come ci ricorda la coda in cui il violino, reso nervoso e viscerale da un pedale fuzz, se la fa da padrone.
E allora alziamogli una Guinness e un augurio in gaelico, mentre con l’altra mano facciamo il gesto del rock’n’roll.