Dopo l’ubriacatura hi-tec sulla simulazione teorica, un ritorno alla sobrietà con un occhio umano sul presente.
Come molti, Matt Bellamy ha passato gli ultimi mesi segregato in casa. Invece di fare il pane o dedicarsi a dirette stucchevoli ha preferito scrivere un pezzo, riportando la sua penna a vette compositive che da molto, troppo tempo venivano ormai solo sfiorate dai Muse.
In un momento storico in cui l’individuo in quanto essere è irrinunciabilmente lasciato solo, circondato da una massa pusillanime nel suo essere chiassosa, il grido sussurrato di Tomorrow’s World regala conforto. Poche parole poste su note drammatiche che dialogano con aperture ariose, seguendo il gioco domanda/risposta del testo per un risultato che travalica il formale e si concentra sul lato emotivo in modo terribilmente efficace. Un po’ come sentirsi abbracciati mentre si è chiusi in casa da soli.
Non tornerà tutto come prima. Non saremo migliori. Ma potremo ricominciare a lavorare su noi stessi, e solo dopo aver fatto i conti con ciò che siamo davvero si potrà ipotizzare un concetto futuro di società diversa rispetto a quella che ci hanno sempre detto essere giusta.
Il lockdown forzato ha tirato fuori da Bellamy il meglio che c’è in lui, che è in fondo ciò che ha reso la sua carriera con i Muse qualcosa di cui essere orgogliosi: riuscire a trasferire in musica e parole sentimenti e concetti difficilmente descrivibili in altro modo.
Insieme a ben pochi altri brani di questo periodo, una fotografia che parla di oggi ma – e qui sta la sua forza – talmente in primo piano da risultare universalmente senza tempo. Voce, pianoforte e archi, probabilmente sintetici. Quanto basta per colpire al cuore.