Folk-punk barricadero per le trincee delle nostre stanze.
Se una carriera si misura con i parametri dati da fama, soldi e successo, Enrico Cappozzo ha fallito completamente. Non sono bastati infatti più di vent’anni passati con iMelt e i Muleta a trasformarlo in un idolo per giovani disadattati, quindi se ne deduce che non vedremo mai una serie TV Netflix incentrata sulla sua vita.
Lui però di tutto questo probabilmente se ne frega. E ha ragione da vendere.
Il continuo alternarsi di soddisfazioni e cadute non è mai riuscito a intaccare la voglia di Teno di esprimersi attraverso la musica, qualcosa che man mano ha preso piede nelle sue composizioni e che, abbandonando ogni velleità ambiziosa, lo ha portato a comporre in maniera spoglia, apparentemente semplice, schietta e terribilmente lacerante. Per parlare di sé. Per parlare di noi.
Il nuovo singolo, uscito in pochissime copie su flexi-disc, ne è un fulgido esempio. Un riff circolare ma elegante di chitarra acustica fa da perno sul quale si posa la voce, mentre il violino sofferente e pregno di pathos di Sergio Orso danza tutto intorno. La magia della registrazione in presa diretta (dietro al mixer un certo Giorgio Canali) rende il tutto ancora più vivo, quasi come se in quella stanza ci fossimo noi, che metabolizzando le parole semplici, dirette ed efficaci del testo probabilmente ci staremmo facendo le stesse domande.
Il suo è uno sputo in terra più che in faccia, tanta è la disillusione nei confronti di una società che oltre a friggerci il cervello sta pian piano mangiandoci il cuore. E quelli che come Enrico invece il cuore ce l’hanno ancora, non possono fare altro che allontanarsi dal chiasso e sbottonarsi la camicia, mostrando – fottendosene di tutti – il proprio che sanguina. Senza far rumore.