Mosca e dintorni, ovvero la migliore versione antropomorfa del tanto bistrattato insetto dai tempi del compianto Maurizio.
L’idea di “band” comunemente intesa non è propriamente morta – grazie al cielo – ma diciamo che non ce n’è più così tanto bisogno come un tempo. Nel senso che l’assunzione – una volta imprescindibile – che tutti debbano essere nella stessa stanza per comporre un pezzo è sorpassata da un bel po’. Tipo dal secolo scorso. Sicuramente da prima che tutta una serie di decreti antipandemia ne sancissero il divieto, mettendo di conseguenza nero su bianco anche l’esigenza di fare musica a distanza.
Questo per dire che sì, forse è solo l’impressione distorta da giorni e giorni di reclusione forzata, ma mai come in questo periodo sembrano piovere collaborazioni più o meno improbabili, realizzate con in mezzo spazi più o meno virtualmente oceanici. E ben vengano, sia chiaro, se l’alternativa deve essere l’ennesimo aperitivo su Skype.
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Poteva quindi mancare all’appello il principe dei progetti paralleli come se non ci fosse un domani (e spesso anche senza un domani)? Colui che del “feat.” a tappeto ne ha fatto prima un’arte e poi una ragione di vita? Stiamo parlando di quel Mike Patton che è l’unica – vera e orgogliosa – mosca tzè-tzè della musica internazionale: imprescindibile e geniale ai limiti del fastidioso, come il prezzemolo ma meno profumato. Camaleontico, direbbero quelli per cui le parole non hanno (più) importanza.
Non stupisce nemmeno la rimpatriata emilana (lui che ha vissuto a lungo a Bologna) con gli Zeus! (da Imola con furore) e la scelta di affrontare di petto una canzone che basa la sua poetica su un concetto meno banale di quello che sembra, in giorni saturi di presunte informazioni – «I say buzz buzz buzz». L’originale era già abbastanza inquietante, ma qui l’interpretazione al solito parapsicopatica dell’ex frontman dei Faith No More – unita al folle math/prog-rock del duo Cavina/Mongardi e a un video che sembra uscito da un incubo di Gondry seviziato da Cronenberg – portano la cosa su un ulteriore livello di depravazione.
Sta su Really Bad Music for Really Bad People: The Cramps as Heard Through the Meat Grinder of Three One G, che è una sorta di sequel di quello che l’etichetta californiana aveva già fatto nel 2002 con i Queen e nel 2006 con i Birthday Party, però a questo giro dedicata a certi furfanti del CBGB noti come Lux Interior e Poison Ivy. Vede la partecipazione di gente del calibro di METZ, Chelsea Wolfe, Daughters (and so on) e la sensazione è che abbia un valore che va ben oltre il semplice autoerotismo sulla storia del punk.