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Rolling Stones: Living in a Ghost Town
Quarantena? La rehab era peggio, fidatevi

Rolling Stones
Living in a Ghost Town

A una certa età, parli solo se hai qualcosa da dire. E se lo fai, lasci il segno.

Sono anni che gli Stones sono oggetto di miliardi di meme. Quello che il mondo scientifico – e non – si chiede da eoni è semplicemente come i nostri possano essere ancora vivi dopo 58 anni nel music biz ad altissimi livelli, dove, diciamocelo, non si sono fatti mancare nulla.

La domanda che invece si pongono gli altri è: ma come diavolo fanno a essere sempre così sul pezzo? Come fanno a trasformare (quasi) ogni volta un riff trito e ritrito in qualcosa di eccellente? I puritani potrebbero sostenere che questo gioiello uscito a sorpresa sembri in realtà un singolo mancato da Emotional Rescue. Vero, ma se quell’album fosse stato suonato e prodotto così avrebbe avuto uno spessore ben diverso.

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Frutto di alcune session interrotte a causa della crisi COVID-19, Living in a Ghost Town trasuda Stones da tutti i pori, anche quando la voce di Mick viene filtrata – non per mascherare delle lacune bensì per sottolineare la solitudine di un isolamento – ma in chiave moderna: nel lockdown le nostre comunicazioni sono affidate allo smartphone, una macchina che se da una parte diventa indispensabile per mantenere i contatti, dall’altra rischia di diventare un surrogato inefficace e pericoloso dei rapporti umani. La sensazione di non sentirsi soli diventa in realtà una proiezione effimera e distorta della realtà. Il testo è solo apparentemente semplice, ma dà voce alla maggioranza silente che sta chiusa in casa in questo periodo: non ai complottisti, non a quelli che sbraitano contro i runner, nemmeno ai virologi ed economi dell’università della strada, né tantomeno a quelli che, purtroppo, soffrono per qualche lutto.

No. Non parla di loro. Niente «state a casa» e niente «andrà tutto bene».

Il drumming minimale ma enfatico di Watts (quante analogie tecniche con il bistrattato Lol Tolhurst, lo avete mai notato?) e le pennellate della Tele a cinque corde di Keith che si intrecciano con la Strato di Ronnie, mentre sopra Mick interpreta (che è ben diverso dal semplice cantare) magistralmente le parole che sono la colonna sonora di tutti quelli che mestamente seguono le regole ma non parlano, quelli che sono sordi rispetto alle scaramucce altrui pur rimanendo empatici nei confronti di chi davvero ha perso qualcuno o qualcosa ma che, in quanto individui, umanamente non possono fare a meno di soffrire di una privazione della libertà personale. Giusta, nobile o meno, crea anch’essa sofferenza. E in mezzo a slogan faziosi spesso pericolosamente simili a proclami ciechi da tifo, l’istantanea sull’ordinary man di Jagger e Co. è efficace in maniera disarmante, mentre il suo andare barcollante e sleazy sembra essere il ritratto del tempo che mai come ora è sembrato statico nella sua passività aggressiva.

Voluto o meno, Living in a Ghost Town è una delle polaroid migliori di questo periodo. Cruda, diretta, seria, vera. Terribilmente Stones.

Rolling Stones 

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