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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Bob Dylan: Murder Most Foul
Perché io so' io e voi non siete un cazzo

L’ultimo, lungo ringhio del cane senza padrone.

Bob Dylan è unico. Punto.

Potremmo finire qui, ma al lettore curioso un paio di cose (anzi, almeno tre) vanno spiegate.

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Bob Dylan: I Could Have Told You
The Wallflowers: Roots and Wings

Prima – se per molti i Radiohead di Kid A avevano avuto coraggio nel rendere ancora più complesse le loro composizioni nonostante il successo di Ok Computer, Dylan fu quello che, all’apice della sua fama come folk singer, si diede all’elettrica, facendo il dito medio ai fan sconcertati e alla critica incredula.

Seconda – se per molti Kurt Cobain dimostrava un’integrità artistica suonando svogliatamente Smells Like Teen Spirit in quanto brano di successo, Dylan è quello che i classici o non li suonava o li rendeva irriconoscibili, facendo il dito medio ai fan sconcertati e alla critica incredula.

Terza – se per molti artisti contro il sistema tipo Guns N’Roses, Motorhead, Slayer e altri ricevere un premio “dal sistema” era comunque motivo di orgoglio, Dylan non si è nemmeno presentato a ritirare il Nobel per la Letteratura “perché aveva di meglio da fare”, mandando al suo posto Patti Smith e facendo il dito medio ai fan sconcertati e alla critica incredula.

Quindi Dylan, piaccia o no, è unico. Scostante, grigio, poco amabile. Eppure ogni volta che fa qualcosa il tutto ha senso. Più di mille pose o banalità da star.

Erano otto anni che non pubblicava qualcosa e se ne esce così, a sorpresa, con un pezzo di 17 minuti che apre il cuore in due. Su una base di pianoforte e archi, la voce nasale, roca e tremendamente evocativa di Bob fa quello che ha sempre fatto: ci racconta una storia. Prendendo come punto di partenza l’omicidio di Kennedy, Dylan disegna un quadro complessivo degli anni Sessanta, citando musicisti, attori, scrittori, per salutare un’epoca tragica ma anche gloriosa che non c’è più, nascondendo dietro lo scorrere delle sue parole un’universalità disarmante. Il ciclo malinconico di un’era che si chiude ed è preludio di cambiamenti radicali nell’uomo è una costante della vita stessa, e mai come in questo periodo storico il senso di rassegnazione contrapposto al desiderio di ripartire ha una valenza emotiva enorme. Poco importano i nomi dei personaggi, né tantomeno vivere costantemente aggrappandosi al passato con il presente immerso nella paura per il domani perché, come dice lui verso la fine, «la morte verrà quando verrà».

Un vero invito alla presa di coscienza umana, un invito alla vita “nonostante tutto”, una punta di sano realismo positivo sopra il mare di banalità violente e razziste travestite da parole buoniste e illusorie di questi giorni. Grazie Bob.

Bob Dylan 

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