La memoria persa è una vita (quasi) sprecata.
Come spesso accade a quelli che hanno conosciuto da vicino l’abisso, una volta rinati ne esorcizzano la presenza diventando fertili di vita, relegando l’eco degli antichi fantasmi alle parole di un libro o di un umbratile cantautorato.
Mark Lanegan fa tutte e due le cose. Giunto ben oltre al mezzo secolo (e incredulo lui stesso di esserci arrivato), partorisce quasi in contemporanea il libro autobiografico Sings Backwards and Weep e l’album Straight Songs of Sorrow che sarà prodotto, come il precedente Somebody’s Knocking , dal tocco magico di Alain Johannes e che vedrà la partecipazione tra gli altri di Warren Ellis, Greg Dulli, Ed Harcourt, Mark Morton dei Lamb of God.
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Skeleton Key, il primo brano estratto da quest’ultimo lavoro, addensa luci sulfuree ridestando a ritroso demoni mai sopiti (ma sempre abbracciati) attraverso un lirismo che ricorda gli episodi più melodici di Bubblegum e di I’ll Take Care of You. Abbandonando per un attimo le sperimentazioni elettroniche, Mark ritorna alla sua radice musicale con un ritmica scarna ed essenziale, che denuda l’anima.
Attraverso un passepartout (la skeleton key) apre gli armadi del suo passato dando aria agli scheletri che sono diventati l’ossatura fondamentale delle nuove canzoni. La sua voce roca brilla quando, su di un impianto ossessivo, reiterato e minimale, recita la preghiera della sopravvivenza: «Ho trascorso la mia vita cercando di morire in ogni modo / è il mio destino essere l’ultimo? / tutte le cime ombrose che ho scalato / e devo ancora essere rinviato».
Lì dove gli alberi hanno smesso di urlare fiorisce l’ultimo pagano romanticismo. Amen.