Per ribadire che nessuna vita è invano, figuriamoci quella di Daniel Johnston.
Lo sapevamo: sarebbe dovuta andare così – avrebbe dovuto essere l’ultimo (mini) tour di sempre. Cristo, ma non in questo senso. Cinque misere date, esclusivamente negli Stati Uniti, con il supporto di altrettante band scelte dall’infinito mazzo di quelle che “ha influenzato con la sua musica”: Jeff Tweedy & Friends a Chicago, i Built to Spill a Portland e Vancouver, i Districts e i Modern Baseball a Philadelphia e i Preservation All-Stars a New Orleans. A voler ben vedere, così in effetti poi è andata: in ogni occasione il gruppo che lo ha accompagnato ha deciso anche la setlist e durante l’evento è stato proiettato il documentario del 2005 The Devil and Daniel Johnston.
In pratica, una specie di addio alle armi in cinque puntate sotto forma di sonorizzazione della sua stessa storia. Malinconico quanto complicato. Difficile, molto difficile. Ma pur sempre di un significativo viatico verso la pensione si sarebbe dovuto trattare. Mica in direzione cimitero. E invece.
E invece poi ti tocca fare i conti con quello che è rimasto. E quello che è rimasto sono i nastri di una sala prove: una manciata di cover venute particolarmente bene, che magari vale la pena di far uscire alla luce, anche solo per venire a patti con la triste necessità di dover dire addio al posto di ciao.
Il giro dei pensieri nella testa di Doug Martsch deve essere stato più o meno questo, e così ecco in arrivo Built to Spill Plays the Songs of Daniel Johnston, da cui è tratta una versione finalmente suonata da una band intera di quella Life in Vain che a suo tempo stava su Fun, lo sfortunato disco con cui Danny Boy (o chi decise per lui) tentò un timido e inutile assalto al mondo mainstream delle major nel 1994, mettendo le bozze che aveva in testa nelle mani di una produzione non dico degna, ma almeno che facesse uso di strumentazioni un minimo più evolute di un Sanyo boombox da 59$.
Come ogni volta che ci si è avventurati in un’operazione del genere con l’opera dell’indiscusso – e probabilmente involontario – emblema dell’estetica lo-fi, la morale è sempre la stessa e ha qualcosa a che fare con la devastante potenzialità della composizione originale: delizioso bubblegum-pop se ci passi sopra una vernice patinata, killer-rock se premi il pedale dell’acceleratore con una punta di distorsione e una batteria che pesta alle spalle – vale (e soprattutto funziona) tutto.
Poi ovvio, al solito ci saranno quelli che storceranno il naso a prescindere, chiedendosi indignati: dove finisce la presunta, bambinesca “onestà” del personaggio quando l’approccio alle sue canzoni esce dai canoni di un ossequioso purismo di solitudine DIY? Ma quelli son fan(atici). Lasciateli perdere.